Il giardino del Ryōan-ji, forma e assenza di forma
Il giardino del tempio Ryōan-ji è sicuramente uno dei più famosi giardini zen. Variamente interpretato e studiato in diverse circostanze, cattura l’attenzione anche di artisti moderni e contemporanei. Il musicista John Cage gli dedica un pezzo silenzioso intervallato da suoni isolati, W. Gropius – scrivendo a Le Corbusier – vi individua gli stessi principi di semplicità ed essenzialità che animavano la sua produzione. L’origine di questo giardino è antica e si colloca nel periodo Muromachi; probabilmente in passato non aveva la forma che è possibile vedere oggi: diversi scritti testimoniano come esso avesse avuto l’aspetto di un paesaggio in prestito, uno shakkei. Oggi il giardino secco del Ryōan-ji è formato da una superficie rettangolare non attraversabile, composto da sabbia bianca e quindici pietre sistemate in diversi gruppi. Il muro e gli alberi alti all’esterno hanno oscurato quello che in tempi antichi fu un paesaggio catturato e incorporato nell’architettura, in continuità tra interni ed esterni, una moltiplicazione dello spazio.
Il giardino secco viene chiamato in giapponese karesansui 枯山水. È interessante soffermarsi sul significato di questa parola: se si considerano i kanji utilizzati, si può vedere che kare 枯significa “povero, secco”, mentre sansui 山水 è un accostamento dei kanji di “montagna” e “acqua”. Questa analisi della parola già dice molto sulle caratteristiche di questo tipo di giardino.
La natura in questo contesto è povera e secca, inorganica, non rappresenta la vita nel momento in cui è pulsante e rigogliosa. A prima vista, dunque, questo tipo di giardino è molto differente da quelli considerati finora in questa serie. Nello shakkei e nello tsubo-niwa la natura è viva, le cose qui sono lasciate al loro divenire, in un inevitabile scorrere del tempo; nel giardino secco invece sembra quasi che questo tempo si sia fermato.
Oltre a ciò, le parole “montagna-acqua” rappresentano un ideale paesaggio. Questa denominazione del paesaggio è utilizzata anche nella pittura cinese, a dimostrazione di come l’arte dei giardini sia molto vicina all’arte pittorica. Senza soffermarsi troppo su quest’ultima, è bene tenere presente come la pittura cinese tradizionale si fondi su equilibri particolari: gli spazi vuoti del foglio si alternano alle pennellate scure, creando una dinamica e armonia specifica. Montagne e acque sono due poli del dipinto, rappresentanti diversi tipi di paesaggi, vengono armonizzati attraverso gli spazi vuoti.
L’esempio del Ryōan-ji testimonia come il giardino sia uno spazio da contemplare, un’opera che può essere osservata come un dipinto, sebbene allo stesso tempo non ricopra solo una funzione decorativa rispetto all’edificio: non è percorribile, ma è solamente osservabile dalla veranda del tempio che è presente su uno solo dei lati del giardino. Da questa veranda è possibile osservare l’esterno, sedersi e meditare.
E, a proposito di meditazione, in questo contesto emerge come sia difficile parlare di giardino secco senza prendere in considerazione le dottrine zen più nello specifico. Sebbene l’arte giapponese antica non sia solo un’arte zen, nel caso di questi giardini è impossibile parlare di una cosa senza soffermarsi anche sull’altra. Cercando di evitare la semplificazione eccessiva, ma senza soffermarsi troppo su queste dottrine (cosa che richiederebbe una riflessione molto più ampia), è bene mettere in evidenza alcuni punti fermi dello zen. Il buddhismo zen è un insieme di dottrine che traggono le loro origini da culti importati dalla Cina (buddhismo chan), dove il buddhismo Mahāyāna subisce influenze dalle dottrine del taoismo. “Zen” significa “meditazione”, esperienza atta alla comprensione della realtà, da un punto di vista non prettamente speculativo. La dinamica e fondo della realtà è vuota, ed è comune ad ogni cosa, uomo e natura: attraverso diverse esperienze, dunque, l’individuo dovrà comprendersi come parte di una realtà più ampia e capire di non essere indipendente da ciò che lo circonda, ma di essere invece in relazione al resto. Oltre a ciò, è la qualità di questa realtà comune alle cose a interessare: vuota, in divenire, ciò che rende le cose non permanenti, effimere. Il giardino, dunque, può essere – più che attraversato – contemplato, e in questa contemplazione è possibile fare esperienza di quel vuoto di cui parlano le dottrine zen. È anche nell’esperienza artistica che si compie dunque la meditazione e si comprende qualità delle cose.
Si passi ora a una descrizione concreta: il giardino è di forma rettangolare, composto da sabbia, alcune rocce e muschio. Al di là del basso muro, che percorre due lati del giardino, si può scorgere invece una natura viva, differente da quella secca del karesansui, che probabilmente in passato – come si è detto – lasciava intravedere un paesaggio di sfondo, che veniva preso in prestito e inserito nel contesto. Gli elementi semplici che costituiscono il giardino richiamano subito alla vista l’esperienza del vuoto: la sabbia bianca e le rocce sono due poli del reale, pieno e vuoto. Questi due poli sono sempre in relazione e alla base di tutte le cose. Come in un dipinto, le rocce sono i tratti d’inchiostro nero, e la sabbia è il foglio bianco, attraverso il vuoto essi si armonizzano e ne emerge il legame. L’essenziale in questa composizione, come è stato messo in evidenza da molti studiosi di giardini e di zen, è proprio il legame che intercorre tra gli elementi e non le istanze singole. Si dice che l’architetto del giardino del Ryōan-ji abbia pensato alla struttura in modo che nessuna delle pietre presenti avrebbe potuto essere osservata singolarmente, ma anzi sempre in gruppo. Questo restituisce visivamente quella parte della dottrina zen che prende in considerazione il rapporto tra le cose, l’interdipendenza e non autosussistenza dei singoli.
Il giardino del Ryōan-ji è un paesaggio che in un certo senso rappresenta tutti i paesaggi: ne mostra la parte essenziale, semplice, povera. Attraverso questa forma artistica si può comprendere quale sia la visione della realtà per le dottrine zen: dunque una struttura specifica, un giardino particolare, che allo stesso tempo però nasconde e mostra ciò che anche tutti gli altri giardini sono, emerge quell’esperienza del vuoto che sta al fondo delle cose. Per comprendere questo è molto utile fare riferimento a ciò che il filosofo Ryōsuke Ōhashi mette in evidenza nel suo scritto Kire: il bello in Giappone. Egli parla dell’espressione «formazione dell’assenza di forma». Cosa si vuole intendere con questa frase complessa? Nel suo essere povero, secco, nella sua semplicità ed essenzialità, questo giardino è come se contenesse in sé tutti i giardini, come se desse una certa rappresentazione della realtà. E in questa rappresentazione «lì, dove montagne e acque “seccano”, vale a dire scompaiono, vengono messe in forma; lì dove la forma viene annullata, essa viene abbozzata»: è proprio nella semplicità, dove la vita viene meno, dove le cose vengono rappresentate nella loro essenzialità che si comprendono le qualità della realtà. Queste qualità emergono proprio nel momento in cui viene meno la forma, la costruzione si fa semplice e povera: la forma viene abbozzata proprio quando diviene assente, poiché è il vuoto ad essere la forma delle cose. Questo vuoto che è tutte le cose attraverso il giardino ci restituisce una realtà provvisoria, effimera, impermanente e interconnessa, dove ogni elemento è interdipendente da altri. Il giardino del Ryōan-ji attraverso la sua composizione fa emergere le qualità delle cose nel senso che esso, mettendo degli elementi in forma, disponendoli in modo da farne emergere caratteristiche particolari, attraverso l’arte permette di intravedere che le cose sono al loro fondo vuote, interconnesse, provvisorie: le pietre sono collocate in gruppi e non possono essere percepite come singoli, lo spazio bianco della sabbia è come vuoto e si relaziona a questi elementi, i quali rappresentano la vita nella sua forma di provvisorietà, povertà, semplicità.
Ōhashi conclude: «attraverso il processo di essiccazione viene alla luce l’autentico modo d’essere del fiore. Fiorire rappresenta un accrescimento della vita. In questa somma attività si manifesta la forza vitale, e tuttavia al contempo la vita cela così uno dei suoi tratti essenziali: la mortalità».
Susanna Legnani