Dall’Italia al Giappone: intervista all’artista Gianluca Malgeri
L’incontro tra Giappone in Italia e l’artista Gianluca Malgeri è avvenuto nel contesto di un recente progetto che ha coinvolto lo spazio espositivo di una delle vie più famose di Milano: Viavài, mostra di arte contemporanea nelle vetrine di Via della Spiga. Il progetto, ormai concluso, avveniva in piena emergenza covid19, con l’intento di utilizzare gli spazi dei negozi vuoti a causa della pandemia in prospettiva creativa. La mostra presentava opere di diversi artisti contemporanei, è stata presentata da VIA (Visiting Installation Art) e curata da Federica Sala, ospite insieme a Gianluca Malgeri in una delle dirette Instagram dell’Associazione.
Gianluca Malgeri, di origini calabresi, da anni lavora tra Firenze e Tokyo. Ha esposto le sue opere in Europa e Giappone. Attraverso Playground Project la sua produzione artistica si intreccia nel 2015 con quella di Arina Endo, artista giapponese e sua partner. Il punto di partenza della collaborazione artistica tra i due è la mostra tenuta a Venezia Edge of Chaos (2015), sebbene l’intuizione alla base di questa esposizione abbia radici più profonde. Prima in Danimarca e successivamente in un viaggio in India durato sei mesi, Gianluca e Arina incontrano per le prime volte quei luoghi che saranno di ispirazione per le loro successive opere: i playground. I playground sono parchi all’aperto per i bambini, aree progettate e dedicate al gioco.
Quella sui playground è una vera e propria ricerca, tra forme e percorsi quasi labirintici, che vengono divisi e assemblati da Gianluca nei propri collage. Proprio come un gioco, l’artista sperimenta, compone le parti delle strutture per ottenerne sempre di nuove e differenti. Le sculture in metallo sono la naturale continuazione di queste opere, come se la costruzione si protraesse fino al di fuori del collage e ne mantenesse le modalità di composizione.
Il progetto dei playground prosegue con la mostra a Roma nel 2015-2016, Homo ludens e negli ultimi anni, dal 2017 ad oggi, si concretizza nel lavoro di ricerca collocato proprio in Giappone, a Tokyo. Esemplificativa dell’evoluzione di questo progetto è la mostra Mery-Go-Round (Tokyo, 2019), in cui le sculture di Gianluca e Arina si fanno sempre più leggere, galleggiano sospese.
Di recente, nel 2020, Gianluca e Arina portano a termine anche un progetto per l’allestimento delle vetrine di Hermès in Giappone: Taking an Airing.
Proprio per la sua lunga esperienza in terra nipponica, Giappone in Italia invita Gianluca Malgeri al racconto della sua esperienza come artista in Giappone. Abbiamo incontrato Gianluca e gli abbiamo posto alcune domande.
Cosa ricordi maggiormente delle tue prime esperienze in Giappone?
Ci sono diverse cose che mi tornano alla mente se penso alle mie prime esperienze in Giappone. Una su tutte è il modo di comunicazione che sono stato quasi un po’ costretto ad adottare agli inizi, che mi ha fatto in un certo senso avvicinare alla cultura giapponese. Ho subito notato come il primo approccio alla comunicazione sia stato di tipo grafico: per me, che ancora non conoscevo nulla della lingua giapponese, l’unico modo per chiedere indicazioni o informazioni era quello di passare attraverso i disegni. I giapponesi credo siano abituati più di noi a questo tipo di mezzo comunicativo. Mi è capitato molto spesso che, di fronte alla realizzazione del fatto che io non potessi comprendere la loro lingua, pur di aiutarmi si siano messi a disegnare indicazioni stradali o informazioni di diverso genere. Questo mi ha fatto pensare all’approccio molto più diretto che questo popolo ha con il disegno: i kanji giapponesi sono vere e proprie miniature del mondo grafico, la scrittura è anche tecnica pittorica. Direzione, precisione, pressione maggiore o minore, velocità o lentezza del tratto, essenzialità della rappresentazione. A questo i giapponesi sono abituati sin da piccoli.
Questo tipo di comunicazione essenziale e orientativa mi ha fatto anche pensare alle descrizioni che Roland Barthes fa della lingua giapponese e delle città nel suo scritto “L’impero dei segni”. Lo scrittore fa subito notare come in Giappone i significati eccedano in un certo senso le parole. Come sia un’idea dell’Occidente il fatto che la comunicazione passi in prima istanza e in modo privilegiato dalla parola. In Giappone possiamo avere esperienza di come i significati comunicativi abbiano molte altre vie per essere espressi. Il disegno, ad esempio.
Riferimenti ambigui e per approssimazione, una definizione particolare dello spazio e un tipo di orientamento legato a punti di riferimento visivi: R. Barthes parla anche della difficoltà di orientamento nella città giapponese, senza indirizzi come li intendiamo noi, dove le vie non hanno un nome ma le città sono divise in quartieri, blocchi.
Ciò mi ricorda, oltre a tutte le volte che ho chiesto indicazioni e mi è stato risposto con una mappa disegnata ed essenziale del luogo, il modo in cui abbiamo stampato le locandine della mostra di Mery-Go-Round. Dietro agli inviti avevamo inserito, oltre all’indirizzo, una mappa, la quale era decisamente orientativa: segnava riferimenti visivi importanti come stazioni della metro o convenience store, che tutti avrebbero potuto riconoscere.
Mi piacerebbe in futuro lavorare a un progetto in questo senso, attraverso tutti i disegni che mi sono rimasti dalle mie visite in Giappone, spererei solo di non perdere la freschezza e spontaneità che stava dietro a queste espressioni grafiche.
Quali altre esperienze hanno segnato i tuoi primi viaggi/permanenze in Giappone?
Le prime volte che viaggiai in Giappone fu a Kyoto. Decisi di trasferirmi a Tokyo con Arina solo successivamente.
Ricordo che in un Bed & Breakfast in cui sono stato feci esperienza di ciò che Giappone penso significhi ospitalità: alla fine del mio soggiorno il proprietario mi salutò con un regalo. Mi sono dispiaciuto a posteriori di non aver pensato a qualcosa da lasciare a questo signore anch’io. Mi resi conto come in Giappone vigesse un vero e proprio culto dell’ospitalità, un’attenzione particolare alla persona. Compresi che non si trattava solo di gentilezza, ma di un vero e proprio codice.
Questa sensazione di essere sempre i benvenuti si è spesso intrecciata e scontrata con un’altra sensazione, che credo non si sperimenti solo in Giappone ma un po’ ovunque all’estero: quella dello smarrimento e del sentirsi straniero. Forse, in alcune situazioni, in Giappone questa sensazione potrebbe essere più accentuata che in altri luoghi, per diverse ragioni. Lo straniero, però, ancora oggi fa sempre un po’ curiosità e allo stesso tempo paura. Tuttavia, anche a livello artistico questo mi ha spinto ancor di più a cercare di comprendere la diversità. È un momento in cui la sensibilità si amplifica, si comincia a comprendere meglio l’altro e anche maggiormente se stessi. Ammetto che, in quanto persona del sud trasferita al nord, ho avuto in me questa sensazione di diversità in diverse occasioni. Il Giappone mi ha aiutato a comprendere questo ancora più profondamente.
Un’altra esperienza molto importante per me è stato l’incontro con la famiglia della mia fidanzata. Sentivo sarebbe stato un grande passo, soprattutto in una famiglia giapponese legata alle tradizioni.
Mi è sembrato di avvicinarmi ancora di più alla cultura giapponese, poiché ho avuto diverse occasioni di comprendere come queste tradizioni si leghino alla contemporaneità.
Non conoscevo Kyoto, in quell’occasione uscendo di casa e passeggiando nei dintorni trovammo per caso un Cafè. Questo luogo avrà avuto più di cinquant’anni, a conduzione familiare. Mi sembrò che fossimo entrati in un’altra epoca. Percepivo come a Kyoto tradizione e modernità convivessero, e questo in un certo senso mi aveva ricordato l’Italia con tutta la sua storia. Spesso si cerca l’autenticità e invece si trova il souvenir, ma non era questo ciò che mi ritrovavo a sperimentare ogni giorno per le strade di Kyoto.
Parliamo adesso un po’ delle tue opere. Mi piacerebbe che mi parlassi dei playground, fonte di ispirazione per i tuoi progetti.
Il progetto dei playground nasce da un viaggio che feci in India con Arina. L’idea di playground parte da quella di parco, giardino pubblico. In India il viaggio fu faticoso, nelle grandi capitali caotiche come Nuova Delhi un buon posto per riposare era proprio quello dei parchi, oasi di tranquillità rispetto al resto, dove le regole urbane si sfaldavano.
Anche in Giappone ho fatto esperienze di questo genere, anche qui i parchi e i playground sono luoghi determinanti. Usando l’immaginazione, potremmo dire che quando la società adulta si chiude negli uffici, rimangono due mondi: quello dell’infanzia e quello delle persone anziane. Ciò che immagino sono città incantate prese di possesso dai bambini quando l’adulto è chiuso in ufficio durante le ore di lavoro. Da una parte vi è il dovere e il dover produrre, dall’altra l’idea di conoscere il mondo tramite il gioco. I playground sono il luogo in cui questo avviene.
In Giappone il mondo dell’infanzia è una realtà molto curata e delicata. Dico questo solo da persona che osserva, mi sembra che in Giappone esistano veri e propri luoghi – come questi playground – in cui l’infanzia si sviluppa e affinché il gioco aiuti a conoscere. I bambini vengono molto responsabilizzati, ma allo stesso tempo il loro mondo è rispettato.
Come ti sei trovato a Tokyo e come ti approcci all’arte contemporanea giapponese? Ho notato che nella tua produzione più recente (come, ad esempio, nella mostra Mery-Go-Round), le sculture si fanno sempre più leggere. Come si è svolto questo cambiamento nelle opere?
L’arte contemporanea, il design e l’architettura giapponese mi affascinano molto, ma devo dire che ancora ho difficoltà nel comprenderne alcune declinazioni poiché possiedo un background estetico completamente differente. Sto cercando di entrare in questo codice visivo, di comprendere quale sia stato il percorso che dalla tradizione porta all’arte di oggi.
Piano piano ha iniziato a farsi strada tra noi la percezione che le nostre sculture non dovessero per forza essere dense ma è cominciato un processo di semplificazione. Già dal 2015 iniziamo a pensare a questo, dove “semplificare” non significa rendere semplice, ma piuttosto fa riferimento a un processo di sintesi.
In Mery-Go-Round alcune sculture sembrano galleggiare, sono sospese. L’intuizione della sintesi si è unita qui al fatto che in una delle sale della galleria non fu percorribile la scelta di posare le sculture a terra: era uno spazio in cui una volta era presente una cisterna d’acqua ed erano rimasti i pilastri che la sostenevano. Lo spazio ci ha portato a pensare che sarebbe stato interessante utilizzare il soffitto. Anche l’uso dei colori nelle sculture è stato pensato in relazione al fatto che nella sala della galleria predominasse il colore grigio. Ci sembrò l’occasione giusta per sperimentare con i colori.
L’intuizione, comunque, parte dai collage. I collage sono l’estensione pittorica delle sculture, come le sculture sono continuazione naturale dei collage. La libertà con cui compongo i collage è la stessa che ci ha portato a pensare di collocare le sculture nell’aria, invece che sul pavimento.
A volte credo che ci sia un fraintendimento del ruolo che hanno i collage nella nostra produzione. Il collage è un ritorno alla pittura e un’estensione pittorica (anche se li realizzo attraverso fotografie). La matrice dei miei progetti parte dai collage. Collage è ricerca di un’immagine che documenta, poi c’è la stampa, i ritagli, poi l’assemblaggio che avviene sempre in modo diverso. Collage è gioco intuitivo pittorico di forme e colori, è un infinito assemblabile. Un’infinita possibilità di forme e costruzioni, determinate dalla ricerca che faccio attraverso le fotografie, attraverso i luoghi di gioco.
Speriamo che presto si presenti l’occasione per realizzare sculture in scala reale per i parchi di qualche città.
Qual è l’approccio che avete tu e Arina nella produzione delle opere?
Il mio incontro con il Giappone avviene con Arina e nel modo che abbiamo di lavorare insieme.
Arina ha una predisposizione alla concentrazione. Ha un approccio di dialogo con il materiale, è molto precisa. Il mio approccio è, a volte, quasi un conflitto con la materia, ho l’arroganza di volerla dominare. Arina sembra avere un rapporto naturale con i materiali. La sua scultura è armoniosa, i migliori lavori vengono quando completo qualcosa che lei ha iniziato o viceversa.
L’interessante per noi è proprio trovare un nuovo linguaggio che comprenda i nostri due modi di operare.
intervista di Susanna Legnani