Il giardino del Tenryū-ji: la tecnica dello shakkei
L’epoca Muromachi (1336-1573) fu un periodo di fioritura delle arti legate alle pratiche zen, sviluppo delle quali venne patrocinato in particolare dagli shōgun del clan Ashikaga.
Le arti che subiscono l’influenza o addirittura nascono come pratiche zen sono caratterizzate da un’attenzione particolare per il contesto naturale e per gli elementi della natura in genere, nei quali viene colta la relazione profonda con l’uomo. Tra queste arti emergono la cerimonia del tè, l’ikebana e anche l’arte della composizione di giardini. Quest’ultimo tipo di arte è particolarmente importante poiché influenza la strutturazione stessa degli spazi del quotidiano nella vita dei giapponesi.
Una forma interessante di architettura di giardini è quella che viene chiamata shakkei, proprio perché attraverso questo tipo di struttura è possibile osservare quel rapporto particolare tra costruzione ed elementi naturali. Il giardino del Tenryū-ji è una delle forme più compiute, note e studiate di shakkei, termine che viene solitamente tradotto come “paesaggio in prestito” e che fa riferimento a una specifica tecnica di composizione. Questa tecnica consiste nel tentare di incorporare il paesaggio circostante, al modo che giardino e natura si trovino in continuità. Tutto ciò viene realizzato attraverso una disposizione particolare di alcuni elementi. Nel caso specifico del giardino del Tenryū-ji, il paesaggio preso in prestito è quello delle colline di Arashiyama e Kameyama. Queste colline completano la disposizione degli elementi del luogo, progettato dal monaco buddhista Musō Soseki.
Guardando il paesaggio dall’Hojō, ovvero le antiche abitazioni dei monaci nel tempio, è possibile osservare una prima parte del giardino composta da ghiaia, un laghetto con pietre di diverse dimensioni, sullo sfondo poi gruppi di piante che indirizzano lo sguardo direttamente sulle colline retrostanti. Lo spazio così è illusoriamente dilatato, e non si percepisce più la differenza tra interno ed esterno. Gli studiosi paragonano l’osservazione di questo tipo di paesaggio all’esperienza che si fa nel momento in cui ci si trova davanti a un dipinto: essi spiegano come esso non si attraversi tanto con il corpo, quanto con lo sguardo.
In particolare, lo studioso di architettura Teiji Itō scrive molto a proposito delle tecniche di composizione dei giardini, e analizza il sito del Tenryū-ji mettendo in evidenza questa relazione di interno ed esterno, in uno spazio dilatato e continuo. Soffermandosi a parlare di shakkei egli fa notare come la traduzione “paesaggio in prestito” non sia la migliore per veicolare il significato di ciò che accade nella strutturazione di questo tipo di giardino, ma crede sia meglio parlare di paesaggio «captured alive».
«Captured alive» è un’espressione che evoca contrasti. A volerla tradurre si potrebbe dire che la tecnica del paesaggio in prestito è operata attraverso un luogo di sfondo che è “catturato vivo”, dove il gesto del “catturare” non è però sinonimo di ingabbiare, ma fa pensare più che altro al gesto di chi scatta una fotografia. Il paesaggio in questo caso non è un ornamento, non ha una funzione decorativa, rimane vivo, «alive». La natura che pervade i giardini giapponesi è una natura viva, che è soggetta al mutare del tempo e delle stagioni. I cambiamenti che accadono nella struttura fanno parte della bellezza di questa: quando le foglie mutano il loro colore in autunno, quando un uccello fa il nido su un albero, quando il legno del tempio invecchia. Tutto ciò fa parte della bellezza di questo giardino, ed è allora come osservare un dipinto in movimento.
Questo modo di pensare l’arte è profondamente connesso al rapporto dei giapponesi con la natura, rapporto che trova parte delle sue radici non solo nello shintoismo, ma anche nella tradizione buddhista zen. Alcuni elementi naturali possiedono un’aura di sacralità poiché possono essere luogo in cui risiedono i kami, allo stesso tempo le dottrine buddhiste ricordano la relazione di tutte le cose tra loro, dunque anche tra uomini e natura. Quest’ultima comincia sin dall’antichità ad assumere una bellezza particolare (soprattutto a partire dal periodo Heian), e allo stesso tempo ciò che è bello viene chiamato naturale, attraverso la denominazione di shizen. È questo che nello shakkei spinge il costruttore a non separare il giardino dal paesaggio circostante, e che lo porta a poche modifiche dello stesso paesaggio: gli elementi di questo vengono piuttosto valorizzati nel loro contesto.
Fonti:
Teiji Ito, Space and Illusion in the Japanese Garden
a cura di Susanna Legnani