GLI AINU DEL GIAPPONE – VI. CULTURA MATERIALE E ALTRI RACCONTI
L’annessione formale dell’Ezo (attuale Hokkaidō) nella frontiera giapponese nel 1868, originò numerosi cambiamenti sociali nel popolo Ainu, che aveva sviluppato sino ad allora una cultura propria, a partire dalla forte relazione con l’ambiente naturale circostante.
Differenti per la carnagione bianca, i capelli ondulati e gli occhi senza “plica mongolica”, essi hanno sempre vissuto di caccia e di pesca. La caccia era effettuata da parecchi cacciatori con i cani al loro seguito. La stagione invernale vedeva le donne fiancheggiare gli uomini nella pesca dei salmoni in riva al fiume. Era tagliata legna da ardere, pestato il miglio nel mortaio, sgusciati i legumi…Durante la stagione estiva, invece, era molto diffusa la pesca della trota. Altra distinzione si poteva fare tra la pesca fluviale, per la quale ogni villaggio o individuo aveva un territorio ben definito e quella marittima, in cui venivano utilizzate barche lunghe 3-4 m. I più pescati erano tonni, mammiferi marini, molto ricercati per farne delle pellicce, così come per altri utilizzi lo erano balene e delfini. Sempre durante la stessa stagione estiva veniva preparata la corteccia d’olmo per la realizzazione degli abiti, mentre in autunno ci si dedicava alla raccolta dei frutti che la natura riservava loro. Inoltre era praticata la raccolta della corteccia di frassino o di betulla per il tatuaggio e ancora altri legni come quello del salice, della magnolia, del lillà, per la realizzazione degli inau. Donne e bambini si recavano in montagna per la raccolta di castagne, di uva selvatica e ancora aglio, angelica, noci, funghi, radici, venivano raccolti aiutandosi con diversi utensili. Per quanto riguarda le risorse ittiche dei mari e dei fiumi, erano costituite da crostacei di vario genere, tartarughe marine, foche, balene e salmoni.
Il villaggio tradizionale detto kotan nella lingua Ainu. Nell’Ezo Zoshi, (“Il libro di Ezo”) si legge che villaggi erano costituiti da 5-7 case, quelli con più di 10 case invece erano da considerarsi grandi, dislocati nelle valli fluviali o lungo la costa dove il cibo risultava più facilmente raggiungibile, soprattutto quando trote e salmoni risalivano la corrente per la deposizione delle uova. Nell’Ottocento furono costretti a trasferire i propri agglomerati in prossimità degli stabilimenti ittici dei giapponesi dove vennero convogliati al lavoro forzato. Il risultato fu la comparsa del villaggio tradizionale con le caratteristiche case di corteccia e foglie di bambù, con la grandezza di 7m x 5m, provviste di tre finestre, compresa la rorun-puyar (“la finestra sacra”), un’apertura questa, sul lato opposto dell’ingresso, attraverso la quale gli dei entravano ed uscivano e si immettevano gli strumenti cerimoniali ed era proibito affacciarvisi.
Casa tipica Ainu detta “Chise”, presso il villaggio di Biratori. Foto dell’autrice.
La casa prendeva il nome di chise ed era più un luogo di adorazione dei Kamui (“divinità”). La casa Ainu ai nostri occhi risulterebbe come una grande stanza, una sorta di loft moderno, ma con una visione un tantino diversa: vi era una parte “altissima”, nel senso religioso, ossia l’angolo nord-est in cui era posizionato l’inau di Chise-Koro-Kamui, il nume protettore della casa; molto “alto” era anche la rorun puyar, la finestra sacra. Dal focolare verso la porta d’ingresso, si cominciava a scendere verso il “basso” della casa. Questo il motivo per cui gli ospiti e il padrone di casa stavano in “alto”, mentre le donne e i bambini avevano posto in “basso”. Due rotoli di stuoia distesi per terra o sul pavimento fungevano da sedie. Sulle pareti e sul soffitto erano appesi i loro beni: spade decorate, utensili domestici, abiti, vasi. Al centro della stanza in una buca rettangolare di un metro per un metro e mezzo, era posizionato il camino, su cui pendeva una pentola sospesa ad un gancio regolabile. Lungo le pareti erano disposti tavolati, isolati da paraventi di stuoia, che costituiscono il letto. I più benestanti si coprivano con pellicce, mentre gli altri dormivano vestiti tenendosi stretti per scaldarsi.
Gli edifici attigui alle case erano dotati di servizi igienici separati, okkayoru per gli uomini e menokoru per le donne, ad esse era affidato un deposito per la conservazione degli alimenti detto pu.
Un abito tradizionale Ainu detto “Attush”, presso il Museo dell’Hokkaidō. Foto dell’autrice.
Gli Ainu realizzavano i propri abiti tradizionali con pelle d’uccello e piume di gabbiano o cormorano, con rovesci di orso, di cervo, di cane, o indumenti in pelle di pesce, come trota o salmone. Ancora giacche in fibra di corteccia dette attush in tessuto d’olmo, che una volta ricamate o decorate divenivano capi da cerimonia. In seguito al commercio con il Giappone, all’inizio del Novecento, gli Ainu acquistarono massicce quantità di cotone, prendendo cosi a ricamare.
Di questi abiti si distinguono delle varianti, come i chikarkarpe ossia “cose decorate da noi”, gli abiti ricavati dalle fibre delle ortiche detti retarpe ossia “bianco”, dal colore del tessuto, assai diffusi presso gli Ainu di Sachalin. Altre tipologie erano i kaparamip ossia “vestiti sottili”, per la cui realizzazione era utilizzata una grande quantità di cotone bianco; i ruunpe vestiti ricamati con piccole applicazioni. Tra gli accessori delle donne vi erano la matanpushi ossia una fascia ricamata, i ninkari gli orecchini a cerchio (entrambi portati originariamente dall’uomo), una collana detta rekutunpe realizzata con una striscia di stoffa stretta e lunga con piastre di metallo, oppure collane sempre femminili, la cui lunghezza raggiungeva il seno, dette tamasay o shitoki con sfere di vetro. Le donne più anziane utilizzavano grembiuli maidari ornati con i tradizionali motivi. I sandali venivano realizzati con la corteccia, oppure fatti di vite durante il clima mite, mentre quelle di pelle di salmone, essendo più ruvide risultavano essere ottime per camminare sul ghiaccio o ancora vi erano scarpe fatte di legno e cinghie di pelle.
Collane tipiche dette “Tamasay”, presso il Nibutani Culture Museum, Biratori. Foto dell’autrice.
I primi cambiamenti che segnavano l’ingresso nell’età adulta, riguardavano l’indossare un abito lungo a tunica, simile ad un kimono kaparamip per intenderci, si assumeva l’acconciatura tipica, oltre che la crescita della barba, segno di grande virilità e saggezza. Per quanto riguardava le donne, esse prendevano ad indossare abiti lunghi ed ampi, fermati da cinture di tessuto e a tatuarsi. Il matrimonio, nella cultura Ainu, era di tipo ambiliano, vale a dire che era l’uomo ad accogliere nella casa paterna la sua sposa, ma dopo un breve periodo trascorso con i genitori, gli sposi prendevano a costruire la loro capanna. Una volta concluso il matrimonio, il marito poteva completare il tatuaggio attorno alle labbra della moglie, cominciato all’atto del fidanzamento, e che si concludeva con dei puntini sino alle orecchie.
Una importante pratica tradizionale era il tatuaggio. Questo tipo di ornamento veniva eseguito dall’età di 12-13 anni, proseguendo fino agli anni del matrimonio; intorno ai 19-20 anni per gli uomini, 16-17 anni per le donne. Il tatuaggio alle labbra era essenziale per il matrimonio; si cominciava dalla pubertà per essere completato al raggiungimento del 18° anno di età; quello alle braccia era consuetudine completarlo a 20 anni ed infine il tatuaggio alle mani, poteva anche essere terminato dopo il matrimonio, ma non dopo la nascita del primogenito. A scopo ornamentale su sopracciglia, avambraccio, dorso della mano, mentre le dita venivano decorate con disegni di anelli e di altri gioielli. Gli uomini ricorrevano al tatuaggio di rado o solo per scopi terapeutici. Per realizzare il tatuaggio si utilizzava la corteccia di frassino o di betulla tagliata a pezzi e bollita, producendo così un infuso di colore verdastro, che non influiva in alcun modo sul tatuaggio. Dei piccoli tagli erano inferti sulla parte interessata e si procedeva con l’applicazione del nerofumo depositato sul fondo del recipiente, infine per mezzo di un canovaccio, si applicava l’infuso per tre volte. Durante il ciclo femminile, il lavoro era interrotto per la maggiore sensibilità provata. Per accelerare il processo di guarigione bisognava astenersi dal mangiare carne e grasso e rimanere in casa per almeno una settimana.
Donna Ainu con tatuaggio tradizionale intorno alla bocca, foto scattata presso il Museo Kawamura Kaneto, Asahikawa.
Altro aspetto della cultura Ainu è la lingua. Priva di un sistema di scrittura proprio, di conseguenza i racconti, le leggende sono state trasmesse oralmente. Il genere più diffuso era detto Yukar (yukara in giapponese), genere in cui venivano raccontate le gesta di eroi e in cui il divulgatore di storie poteva essere una donna anziana o un anziano uomo, scelti in base alle spiccate qualità nel saper raccontare, nel gioco mnemonico, nella recitazione. Un altro genere di letteratura orale detto Yaysama, ma in questo caso era una donna che cantava una canzone, improvvisata e frutto delle sue emozioni.
La produzione artistico-artigianale era piuttosto povera, nonostante il senso artistico molto sviluppato che manifestano nell’intaglio, dove sono maestri. Sono famose le loro guaine di spade e le impugnature dei loro coltelli con rappresentazioni sacre. Anche il ricamo è molto sviluppato, caratterizzato da simboli come spirali che si interrompono e si intrecciano, venendo a formare vaghe figure di cuori o rosoni, di croci o di scaglie di pesce. Hanno dimenticato da secoli la produzione della ceramica, provvedendosi di recipienti, vasi, bottiglie e quant’altro dai giapponesi, contro scambi in natura (pelli d’orso, penne di rapaci per le frecce, pesce secco, alghe secche e simili), non hanno si direbbe, mai sviluppato una loro metallurgia, per simili ragioni.
Nonostante la “scelta” di molti Ainu di convertirsi alla cultura maggioritaria, quello a cui si assistette dopo è l’esempio di come una tradizione culturale non scompare, bensì si trasforma.
Sabrina Battipaglia