La via del Samurai
Il periodo Tokugawa segna una fase di crisi per la figura del samurai. La classe sociale privilegiata si trova ora destituita dal proprio ruolo militare e dal punto di vista economico è legata a modelli superati. Si assiste così ad un aumentare della violenza, volta a dimostrare il coraggio e la destrezza militare dell’aristocrazia alla ricerca di una conferma della propria identità di classe, mentre gli shōgun procedono nell’opera pacificatrice del Giappone tentando di proibire i duelli che insanguinano il paese, e gli scontri mortali tra studenti dei diversi ryū ingaggiati per dimostrare la superiorità di una rispetto all’altra scuola. Parallelamente gli allievi delle scuole marziali perdono lo stimolo ad impadronirsi di tutte le tecniche utili in guerra per concentrarsi in maniera sempre più specialistica su una sola arte, che da quel momento avrebbe simbolicamente sostenuto lo status del guerriero; così molte scuole di arti marziali smettono di insegnare i colpi più efficaci in combattimento a favore delle tecniche più spettacolari ma di dubbia utilità pratica. Ciò che viene a mancare oltre all’efficacia tecnica è l’approfondimento degli aspetti psicologici che rendevano il samurai preparato ad affrontare i pericoli sul campo di battaglia. Oltre alle scuole che mantenevano stretta aderenza alla realtà del combattimento per cui erano nate, si aggiunge la tendenza ad applicare il bujutsu come “forma di comunicazione sociale, modellata sulle sequenze precise di un rituale fatti di gesti e armi usate simbolicamente, per esprimere un’idea, evocare uno stato d’animo, stabilire e confermare una tradizione”.
Con la fine del periodo feudale, si assiste però ad un ulteriore schema di sviluppo delle arti marziali: gradualmente alcuni maestri non solo accettano di buon grado la trasformazione delle loro arti belliche in metodi sostanzialmente pacifici, ma anzi la favoriscono, recuperando invece con forza l’aspetto psicologico del bujutsu, considerato ora soprattutto un metodo per migliorare il carattere dei suoi praticanti. Con il formalizzarsi delle arti marziali si ha quindi un recupero di valori etici che si ispirano alle grandi religioni orientali che si erano diffuse a più riprese in Giappone e stratificate nel corso dei secoli. Mentre scompare il ruolo storico del samurai con il mutare delle condizioni socioeconomiche, la sua figura di guerriero ideale viene mitizzata così da poter essere mantenuta come modello di comportamento. Questo fenomeno avviene contemporaneamente alla “modernizzazione” e “occidentalizzazione” del Giappone, che coincide anche con la prima divulgazione in occidente della cultura giapponese.
Tra i samurai era sempre esistita la consapevolezza del rapporto diretto tra nemico reale e il proprio limite interiore, ma mentre nel periodo medievale il samurai riteneva generalmente che superare le proprie difficoltà fosse indispensabile per poter sconfiggere il nemico, a partire dall’epoca Tokugawa è il confronto con un avversario a diventare utile come mezzo per aiutare il combattente ad entrare più direttamente in contatto con il proprio carattere. È molto interessante il ritrovare, nella storia giapponese, una tradizione di arti di combattimento (bugei), originariamente create per infliggere ferite e morte sui campi di battaglia, trasformate poi nella Via delle arti marziali (budō), che ha lo scopo di perfezionare l’individuo integrando mente, corpo e spirito.
Un riferimento di questo tipo si può anche associare alla regola confuciana del “governare se stessi per governare il popolo” in un’ottica quindi più politica che spirituale. Questo rovesciamento di mezzi e fini consentì comunque di continuare a riferirsi alla tradizione, reinterpretandola però in senso simbolico: se nel budō l’avversario fornisce l’occasione per superare i propri confitti interiori, egli viene considerato, in termini psicologici, una proiezione esterna delle nostre negatività inconsce che ci creano conflittualità. L’avversario quindi non è più un nemico da abbattere, ma solo metafora di ostacolo interiore da vincere, da superare. Le arti budō, da questo momento in poi, ci indicano un percorso di vita duro e difficile il cui significato simbolico insegna che si può diventare uomini migliori soltanto affrontando le proprie paure e difficoltà, godendo alla fine un’esistenza più piena. All’interno delle scuole di combattimento si cominciò quindi a riferirsi al samurai come figura ideale, non più come realtà storica ma come immagine archetipo di guerriero. La sua immagine venne così mitizzata, ripulita dagli aspetti più sconvenienti, come ad esempio la violenza gratuita di cui era capace nei confronti degli individui più deboli e la sua indifferenza rispetto ai principi etici universali proposti in Giappone dalle diverse tradizioni spirituali che si erano stratificate nel corso dei secoli. Così nelle rinnovate arti del budō, nel periodo Meiji, la figura del samurai acquista quel fascino che conserva ancora ai nostri occhi: egli diventa l’esempio di indomabile forza d’animo, levatura morale, coraggio nell’affrontare le difficoltà della vita, lealtà nei confronti dei propri richiami interiori senza cedimenti al compromesso. La maturazione di questo nuovo ideale fu dovuta ad un maggior approfondimento delle grandi tradizioni religiose presenti da secoli sul territorio nazionale, delle quali si accoglie il tentativo di rendere l’uomo migliore e più sereno su questa terra e non soltanto l’aspirazione a renderlo freddo e impassibile di fronte alla morte. Queste tradizioni concentrano l’attenzione sulla realizzazione dell’individuo nella vita presente, condizione che può essere raggiunta a prezzo di parecchi sacrifici e dedizione instancabile a particolari sistemi di tecniche capaci di veicolare l’esperienza trasformatrice. L’insieme delle tecniche marziali diventa allora solo una via per l’elevazione spirituale: a differenza dello sport, quello che conta non è tanto l’abilità tecnica in sé, quanto il grado di crescita interiore. Il praticante comincia l’apprendimento confrontandosi con il modello del guerriero: egli deve imparare la disciplina, la concentrazione, la forza di volontà e la perseveranza.
Articolo di Chiara Bottelli, nipponista, si occupa di turismo responsabile e artigianato