Kyōto Monogatari – Sulla mostra di Alberto Moro
Da uno scatolone estraggo le foto e faccio nuove conoscenze. Mi saluta un ortolano con l’hachimaki in testa, circondato dai toni verdi, fucsia e brillanti delle sue bancarelle. Mi sorride un cuoco alto e smilzo che poi, negli scatti successivi, inizia la preparazione degli higashi, i dolci di zucchero usati nella cerimonia del tè, di colore rosa acceso. Inizio ad allestire la mostra e mi capitano in mano le foto all’interno del chashitsu, la casa da tè presso il museo dedicato all’artista Kansetsu Hashimoto, accanto a quelle del tempio della virtù, il Daitoku-ji, dove la stanza da tè si allinea con la disciplina della scuola Rinzai. E la disciplina ritrova le sue forme non appena tiro fuori dallo scatolone le immagini del teatro Nō, nate durante l’esibizione del maestro Tatsushige Udaka, erede di una delle più rappresentative famiglie della scuola kongō. E poi cos’altro? Con cambi di registro senza
smottamento, cui la cultura giapponese ci ha abituati, appaiono le foto scattate in un ristorante specializzato in udon. E infine abbraccio lei, Junko. Junko Sophie Okimoto, per essere precisi. Scorza fredda come la cornice, volto liscio come la superficie della carta fotografica, sorriso caldo come quando un tempo la polaroid la sputava fuori subito e fra le dita era ancora tiepida. Un tempo.
Ancora sillabo la parola ed esito come chi sta pensando una definizione, quand’ecco due ultime foto impreviste in mio aiuto. Non sono di questa mostra, ma di quella su Tōkyō, quella di novembre dell’anno scorso. Solo dopo abbiamo deciso di fare il bis e di raccontare della città di Kyōto. Le ultime due foto, però, dalla mostra passata, sono ancora in bianco e nero. I nonni del nostro attuale entusiasmo, quello che racconta della vecchia capitale giapponese attraverso il colore. E quindi, senza volerlo, un paradosso: la Tōkyō moderna, il pozzo di domani, brizzolata che sembra ricordo, letteratura noir, sembra metropoli suburbana e non ancora megalopoli, e dall’altra Kyōto, un imperatore reincarnatosi in cavalletta, distopia che dimentica la restaurazione Meiji, eppure non irreale, ma tutta presente. Che genere di storia stiamo per raccontare, allora?
La mostra Kyōto Monogatari di Alberto Moro, maggio-giugno 2018 presso il teatro Corte dei
Miracoli, in collaborazione con Giappone In Italia e l’associazione “La Taiga”, non è uno di quei monogatari (物語), e cioè “storia”, alla Genji, alla Heike. Pur negli ingredienti delle sue tradizioni – teatro Nō, cerimonia del cha-no-yu, spirito Zen – dimentica per un attimo l’epica e dai suoi due generi sommi di narrazione prende il tsukuri monogatari, le storie di finzione, e ci toglie il non verosimile conservandone la cronologia, ossia il presente attuale, e poi prende l’uta monogatari, i racconti poetici, facendo a meno della nostalgia ma salvandone il lirismo. E tutto questo per ricordarci una Kyōto che esiste ancora. Un pezzo di storia, sì, ma storia dai tempi verbali correnti, da presente storico cesariano, che a prendere l’aereo per andare a verificare non ci tradirebbe. Non storia di Kyōto, insomma, ma storia a Kyōto.
Dopo averci insegnato che Tōkyō, il colosso della varietà, ha un sottofondo monocromo che ci permette di orientare, Alberto Moro adesso ci rivela che Kyōto, sotto la pellicola dello stereotipo, pulsa ancora di colore.
Federico Filippo Fagotto