Il carattere e l’abilità. Le idee musicali del Metodo Suzuki.
«Il bambino ha un carattere semplice, si innamora di qualcosa anche in un solo istante, e la fa propria» – mi ha detto una volta Luca Taccardi, il mio maestro di violoncello, a distanza di anni da quando sono uscito dalla Scuola di Musica Suzuki di Milano. Mi ha sorpreso allora ricordarmi quei momenti in cui, da piccolo, suonavo con lui e i miei compagni e scoprire che in essi c’era sempre stato l’aiuto di un’idea, da cui è nato un metodo per insegnare la musica a dei ragazzi così giovani. Fu ideato dal maestro giapponese Shinichi Suzuki (鈴木 鎮一), nel corso degli invidiabili cent’anni in cui fu al mondo.
Nacque a Nagoya, nel 1898, cullato dalle tre corde dello shamisen, il liuto di origine cinese che la madre aveva imparato a suonare e il padre a costruire, prima di appassionarsi allo strumento che ricominciava a circolare dopo il divieto anticristiano dei Tokugawa: il violino! Nella fabbrica di liuteria del padre, il giovane Shinichi strinse amicizia con lo strumento prima con le mani che con l’orecchio, poi ascoltò il tocco di Mischa Elman da un vecchio grammofono e fu amore vero. Andò in Germania come allievo di un ottimo maestro, che a sua volta aveva studiato con Joachim, ma più che la musica, il viaggio nutrì la sua mente. Conobbe Einstein e molti altri intellettuali e artisti, che parlarono al suo animo soprattutto grazie ai principi filosofici e pedagogici che allora vivevano una dinamica diffusione in Europa. Tornato in Giappone, si dedicò perciò sia allo studio della musica che della cultura da cui si era appena separato – portandosi con sé colei che diverrà la compagna di una vita – e intanto lavorava alla fabbrica del padre, finché la guerra le impose di convertirsi alla costruzione di aeroplani, facendola così diventare obiettivo dei bombardamenti americani. La fabbrica venne distrutta e la moglie tedesca fu costretta ad espatriare per breve tempo. In quel periodo concepì gli ideali che promuoverà nella scuola di musica poi aperta a Matsumoto, dando vita al Suzuki Method o, come avrebbe detto lui, suzuki mesōdo (スズキ・メソード).
La prima convinzione di Suzuki, mutuata dallo studio delle teorie della Montessori, era che l’uomo fosse figlio del proprio ambiente, il che si sposava bene con la sensibilità giapponese, esaltatrice del contesto più che delle verità assolute. Di conseguenza, conviene che i ragazzi si avvicinino alla musica sin da molto giovani e che all’inizio si istruiscano anche i genitori, di modo da creare un ambiente musicale familiare. All’interno della scuola poi, il Talent Education Institute, si arriva ad un amalgama culturale più ampia, che include arti come la calligrafia e la poesia haiku, vere e proprie nutrici del talento. Suzuki, infatti, era scettico nei confronti del genio innato. Uno dei suoi migliori biografi, Evelyn Hermann, scriverà: «Suzuki does not believe in genius». Il secondo principio è l’imitazione come via d’apprendimento, così come fu pensata già a suo tempo da Haydn. Suzuki non dimentica però ciò che diceva sempre la Montessori sulla libertà come condizione in cui i bambini imparano le prime nozioni. Imitare un modello, allora – come per noi violoncellisti poteva essere, ai suoi occhi, Pau Casals – passa attraverso la sincerità con se stessi. Egli non scordò mai, infatti, quella frase letta in un romanzo di Tolstòj, secondo cui «ingannare se stessi è peggio che ingannare gli altri». Imitare non è copiare, dunque, ma avviene così come per il linguaggio: lo si impara ripetendo gli altri, poi ce ne si serve a piacimento. Qui, per Suzuki, fu preziosa la lezione di Piaget secondo cui il linguaggio media dall’autismo iniziale alla ricerca di socialità. Nel linguaggio materno, il maestro giapponese comincia allora a vedere la chiave di tutto lo sviluppo ontogenetico, equiparandolo alla musica, come efficace modalità di comunicazione. Perciò è utile apprenderla sin dall’infanzia. «Music is a language that goes beyond speech and letters» (Kendall, 1966), era solito dire Suzuki, aggiungendo che la sua forma più alta è allora l’orchestra, in cui portava anche i giovanissimi. Se ben gestita, è in essa che si confronteranno, evolvendosi, i rapporti umani nel segno dell’amore. I suoi amici e colleghi ricordano sempre, ad esempio, l’episodio in cui Suzuki – che aveva svolto profonde pratiche Zen sugli stati di salute e malattia – riuscì a guarire il grande violinista Leonid Kogan in tempo per la sua esibizione. Un vero atto d’amore.
Suzuki era così, riusciva a far combaciare il carattere europeo, da cui la musica ha avuto origine, con l’abilità orientale, coltivata con la tipica cura per la disciplina. Ma si potrebbe anche parlare del carattere giapponese, così marcato anche in lui, unito a quella tecnica occidentale che ha portato alle vette della musica moderna e contemporanea. Suzuki riesce quindi a prestare questo suo carattere alla rivisitazione della nostra musica, rivalutando brani ed autori considerati minori – come il Concerto No. 5 di F. Seitz o la Sonata in C Major di Breval – e allo stesso tempo venir considerato un artista pienamente giapponese, tanto da meritarsi il Ningen Kokuhō, il titolo di “Tesoro Nazionale Vivente” tributato solo a pochi maestri. Evidentemente, come amava ripetere, il carattere viene prima dell’abilità, cosa di cui è stato sempre convinto anche Luca, il mio maestro. In più, secondo lui, ci possono anche essere bambini più o meno dotati, ma la realtà è che, nel precoce amore per la musica, si può solo dire che «ci sono caratteri che amano semplicemente e ci sono caratteri che amano passando per strade più tortuose, ma alla fin fine, si ama a prescindere dal carattere che si possiede». Io ero uno di quelli tortuosi. A volte l’ho fatto disperare!
Ricordo però quei giorni d’estate trascorsi a Cuceglio, nella campagna piemontese, assieme ai miei compagni di musica, durante i ritiri di fine anno. Ridevo, mi distraevo, non accorgendomi neppure che, nel frattempo, il pomeriggio lo passavo attorno al mio piccolo violoncello che io, piccolo come lui, già impugnavo, circondato a mia volta dal bosco in cui i maestri ci portavano a provare. Avveniva lo stesso quando guardavo la partitura: non sapevo cosa volesse dire “leggere” le note, ma lo spartito mi suggeriva il da farsi, senza consapevolezza. E ora, quando riascolto l’inizio del Concerto in G minore per due violoncelli di Vivaldi, sento il primo violoncello dare il carattere, escogitando la melodia, mentre il secondo, che riesce subito ad imitarlo creando il duetto, imprimere l’abilità. Ringrazio per questo il mio maestro e il Metodo Suzuki.
Federico Filippo Fagotto