Sorrisi giganteschi e occhi a palla: le origini del volto manga
Chiunque si sia mai trovato a sfogliare un manga avrà sicuramente notato l’incongruenza fra i tratti delicatamente orientali, caratteristici del popolo giapponese, e la loro trasposizione antirealistica ed esagerata sulle pagine dei numerosissimi fumetti made in Japan. Questo, a volte, provoca sconcerto in Occidente, dove il “buon gusto” trova grottesche le bocche che fendono la metà del viso con sorrisi giganteschi, le palle degli occhi che escono dalle orbite o le lacrime che sgorgano come fontanelle. Ciò nonostante, quella che potrebbe apparire come un’imitazione della fisionomia occidentale, ha invece basi ben radicate nel tessuto storico-artistico del Giappone.
Il manga è infatti in debito con la cultura urbana dell’epoca Edo (1603-1868). In questo periodo le classi sociali svilupparono una propria cultura, molto lontana da quella della casta guerriera. Questo fermento culturale diede vita al teatro kabuki, alle xilografie ukiyo-e e al libro illustrato edito in grandi tirature.
L’illustrazione stampata giapponese dell’epoca in questione consiste in un disegno che racchiude delle zone di colore con un tratto molto regolare, senza ombre né una vera e propria prospettiva.
L’anatomia dei personaggi è poco realistica, i volti sono molto spesso stereotipati e privi di caratterizzazione; il loro pallido ovale è come una pagina bianca sulla quale i sentimenti sono
espressi solo dagli occhi e dalla bocca. Questa tecnica si ritrova anche nel manga, in particolare nelle serie per adolescenti, dove i visi ritenuti dalle nostre parti “non giapponesi” non cessano di lasciare interdetti genitori ed educatori. Ma bisogna comunque sottolineare questa affiliazione diretta tra le stampe giapponesi e i manga contemporanei, tanto più che gli artisti di stampe facevano ugualmente uso della tecnica del “fondale soggettivo”, che costituisce una delle specificità del manga.
Inoltre, a consolidare la base per la nascita del manga contemporaneo, giocò un ruolo fondamentale la recitazione degli attori del teatro kabuki, non più realistica dei volti delle stampe.
Gli attori non riproducevano i sentimenti ma li suggerivano con l’esagerazione utilizzando dei
codici pesantemente esasperati: rotear d’occhi, smorfie e posture teatrali prolungate. Gli artisti di stampe usavano spesso e volentieri gli stessi espedienti, proprio come fanno oggi gli autori di manga.
Queste modalità estreme di indicare i sentimenti possono provocare, presso i lettori non abituati, un certo stupore, se non un vero e proprio disprezzo; tale disagio ha di certo contribuito al fallimento dei primi tentativi di tradurre in Occidente serie come “Gen di Hiroshima” (1973) del celebre mangaka Keiji Nakazawa, recentemente scomparso.
Claudio Testori
claudio.testori@alice.it