Il periodo Asuka Il Gigaku
Introdotto durante l’era dell’Imperatore Kinmei (539 – 571), così secondo il Nihonshoki, il Gigaku non è esattamente una forma musicale in senso stretto, bensì una forma teatrale elaborata il cui nome significa, se tradotto letteralmente, musica dell’atto. Chiamato con molti nomi, tra cui kuregaku e kure no utamai dal nome della terra da cui derivava oggi non ancora identificata in maniera univoca, fu introdotto inizialmente da un monaco di nome Chisō, proveniente dalla regione cinese di Wu, che portò in Giappone in quegli anni l’intero organico strumentale per l’esecuzione di questo repertorio.
Solo durante l’era dell’Imperatrice Suiko, nell’anno 612, vi fu la definitiva introduzione di tutto l’apparato sia musicale che scenico grazie soprattutto all’incessante lavoro di promozione delle arti e della religione del continente operata dal Principe Shōtoku Taishi che allo scopo fece trasferire una persona naturalizzatasi giapponese di nome Mimashi proveniente dal regno di Paekje. Questi era, secondo quanto riportano gli annali, uno “studioso di gigaku nella terra di Kure, insegnante poi ai giovani di Sakurai, nella terra di Yamato”, di questi giovani noi oggi conosciamo solo il nome di Mano no Obitoteishi e Imaki no Aya no Saimon.
Andato via via scomparendo già dall’epoca Heian, riuscì a sopravvivere come repertorio autonomo sino agli inizi del periodo Edo all’interno dei templi buddisti per poi scomparire completamente.
Studiosi come Tanabe Hisao sono però convinti che alcuni brani di Gigaku siano arrivati sino ad oggi grazie al repertorio che di fatto inglobò questo ed altri stili quali ilGagaku, più precisamente egli rintraccia nei brani Shinshōtoku, Daishōtoku, Nasori eChikyū del lato destro probabili discendenti di quelle antiche danze e musiche.
Se da un punto di vista uditivo le informazioni sono scarse, diverse sono invece le fonti iconografiche: tra queste, il Dankyu (fig.1), un arco conservato anch’esso allo Shosoin di Nara, rappresenta sicuramente la fonte più importante. In esso vi sono infatti riportate varie figure di danzatori vestite con foggia non Giapponese impegnate proprio nel repertorio Gigaku e da questo è possibile ricavare alcune informazioni anche sugli strumenti impiegati tra cui spiccano gli Dōbyōshi, castagnette, il Sasara, specie di frusta fatta con asticelle di legno ancora oggi in uso nelle campagne, il Narabishō, simile alla syrinx greca più altri strumenti a percussione quali il Gigakutsuzumi e loYoko.
Sono inoltre sopravvissute varie maschere di grande formato sia in legno che in tela (Fig.2) che confermano come questo repertorio fosse principalmente usato nell’accompagnamento di processioni e pantomime e celebrato principalmente all’aperto.
Si è quasi certi che tale rappresentazione si aprisse con una danza di leone, Shishimai, prima rappresentazione di quest’animale sentito come creatura mitica poiché non presente sul territorio e proseguiva poi con una danza che questa aveva personaggio principale il Dio Susanō chiamata Oroshi taiji di cui si è persa completamente traccia.
Nell’attuale ricostruzione del repertorio, condotto anche grazie alle descrizioni contenute nel Kyōkunshō, uno spettacolo completo di gigakucomprende al massimo ventitre attori, e viene diviso in due parti, una processione e la rappresentazione vera e propria messa in scena nel seguente modo:
Durante la processione appare è il Chidō la cui funzione è quella di purificare la strada che conduce al tempio e di controllare il luogo della rappresentazione a tempo di musica a cui segue la già citata Shishimai.
Si susseguono quindi una serie abbastanza lunga di danze che oscillano tra il serio ed il parodico, come la danza che racconta la storia dell’uccello Karura, in indiano Garuda, una delle otto divinità protettrici del buddismo ed altre due immediatamente successive a questa che raccontano di un barbaro ed una fanciulla importunata dal primo in maniera oscena e salvata dall’intervento di due guardiani del tempio e di un Brahmino messo completamente in ridicolo.
Dopodiché si ritorna al serio grazie all’introduzione del personaggio di nome Taikofu, grande padre degli orfani, che effettua varie benedizioni e preghiere rivolgendosi infine anche ai defunti.
La rappresentazione si chiude nel grottesco con la danza Suikoō o Suikojū, nient’altro che una satira nei confronti dei regni stranieri.
Questa è purtroppo solo una ricostruzione sulle fonti che ci sono pervenute comunque scarse, però è chiaro come un repertorio che conteneva una tale commistione di generi fosse destinato via via a scomparire con l’avanzare di forme ben più raffinate quali ilGagaku prima ed il Nō ed il Kabuki poi che avrebbero portato la cultura teatrale e musicale Imperiale e Shogunale giapponese ad un livello di raffinatezza ed astrazione filosofica cui il Gigaku non avrebbe mai potuto sperare.
Edmondo Filippini