Sukiya, Dimora del Vuoto

Tai-an (待庵) Tempio di Miyokyan

Il grande maestro del tè Sen Rikyu (1522-1591), vissuto in Giappone nel XVI secolo, diceva che la stanza del tè doveva essere simile a una capanna di paglia, rappresentare semplicemente un riparo dagli eventi naturali e, nello stesso tempo, conferire un senso di vicinanza alla natura. La stanza del tè doveva essere progettata con il preciso scopo di favorire l’elevazione spirituale di chi la frequentava.
Il termine sukiya era soprattutto usato all’epoca del maestro Rikyu, quindi durante il periodo Momoyama (1573-1603).
Oggi quando si parla di una stanza per la cerimonia del tè, si utilizza la parola chashitsu, termine che iniziò ad essere adottato a partire dal 1600. Il tipo di stanza amata da Sen Rikyu era in stile soan. Questa tipologia si ispirava alle case rustiche in cui gli aristocratici organizzavano incontri di poesia, lontani dalle turbolenze cittadine. Il modello estetico di riferimento era quello dei rifugi montani. La stanza del tè era tradizionalmente in legno e in particolare veniva apprezzato l’utilizzo del cipresso (sugi), del pino giapponese (matsu) e dell’abete giapponese (tsuga).
Per accedere alla stanza del tè bisogna camminare per un sentiero chiamato roji, come fosse un percorso di purificazione. Tutte le pietre sulle quali si cammina sono di forme diverse e distanziate in modo differente e obbligano ad osservare attentamente la direzione dei propri passi. Al termine del breve tragitto, gli ospiti sostano sotto un porticato fino a quando il padrone di casa non li invita ad entrare nella stanza del tè. Prima di entrare nella stanza del tè, tutti gli ospiti devono purificare se stessi con dell’acqua versata da un mestolo. Prima si sciacquano le mani e poi si purificano la bocca.
Dopodiché gli ospiti entrano nella stanza attraverso una porta di legno molto stretta, che misura tradizionalmente 78,8 cm di altezza e 71,5 cm di larghezza chiamata nijiriguchi. L’utilizzo di questo tipo di entrata venne introdotto dal maestro Sen Rikyu che si ispirò alla porta di una casa galleggiante di un pescatore. Per entrare nella stanza bisogna inginocchiarsi e abbassare la propria testa e il proprio corpo. Questo movimento dovrebbe predisporre l’animo dell’ospite a un approccio umile nei confronti di questa esperienza oltre a influenzare la percezione dello spazio interno della stanza, così da farlo sembrare più ampio. I samurai che desideravano entrare nella stanza del tè dovevano abbandonare le lunghe spade all’esterno, in quanto l’ingresso era così angusto da non permettere  loro di portarle con sé.
Una volta entrato nella stanza, l’ospite trova davanti a sé un ambiente spoglio. L’unico elemento architettonico è il tokonoma, una sorta di nicchia, vicino alla quale si siede il primo ospite e al cui interno è appesa un’opera d’arte in forma di rotolo verticale detta kakemono. Questo oggetto può essere una calligrafia realizzata ad inchiostro da un maestro Zen o da un praticante del tè oppure un dipinto, accuratamente scelti dal padrone di casa per esprimere lo spirito che lui desidera infondere all’incontro. La calligrafia deve essere fatta da un maestro Zen o da un praticante del tè in quanto la forza e l’autenticità dell’opera stessa sta nella perfetta coerenza tra forma e contenuto. Il kakemono è senza dubbio l’oggetto più importante presente nella stanza. In passato si costruivano le stanze per adattarle a un’importante calligrafia che si possedeva e non viceversa. Nel tokonoma, si trova inoltre una composizione floreale che, secondo l’estetica della Via del Tè, deve esprimere la semplicità dei fiori di campo. Fiori che solitamente le persone non si soffermano a osservare ma che nel vuoto della stanza del tè possono ritrovare la loro profonda bellezza e dignità.
Il pavimento della stanza è ricoperto da stuoie di paglia di riso, solitamente bordate di tessuto, meglio conosciute con il nome di tatami (il modulo più comune è quello di Kyoto di 1,91 x 95,5). La misura classica della stanza del tè è i 4 tatami e mezzo. Il termine che definisce questo tipo di stanza in Giappone è yojohan. La scelta di queste dimensioni è fatta risalire a Vimalakirti, un buddista laico indiano che viveva in una stanza di circa 9 mq e si dice tradizionalmente che anche in questo piccolo spazio riuscì ad ospitare il santo Manju insieme a 84.000 discepoli del Buddha, segno che per una persona illuminata non esistono limiti dimensionali.
Le pareti sono spoglie. Solitamente i muri sono realizzati con fango misto a fili di paglia come leganti di circa 15-20 cm che non venivano ricoperti così che potessero risplendere nell’oscurità della stanza. Questa tecnica di trattare le pareti si chiama arakabe e conferisce all’ambiente un aspetto rustico.
Colui che organizza una cerimonia del tè dovrebbe ricercare con molta attenzione di mantenere, per tutti i vari momenti che la caratterizzano, dal percorso degli ospiti attraverso il giardino che porta alla stanza, alla loro permanenza fino alla partenza dopo la conclusione dell’incontro, una condizione di quiete in cui lo spirito dei partecipanti non sia turbato da inutili stimolazioni sensoriali, ma sia facilitato nel mantenere una giusta attenzione verso ciò che li circonda. Anche la gradazione luminosa nella stanza, fortemente smorzata, dovrebbe contribuire a favorire uno stato d’animo meditativo.
Takeno Joo (1502-1555), un grande maestro del tè che precedette Sen Rikyu, rivolse il chashitsu, che aveva le pareti ricoperte da una carta bianca spessa e levigata (torinoko) verso nord, in modo che non risultasse troppo luminoso e che riuscisse a evidenziare la bellezza rustica degli oggetti utilizzati durante la cerimonia. Il maestro Rikyu invece era solito posizionare il chashitsu verso sud o est, in quanto ciò gli permetteva di giocare artisticamente con la mutevolezza della luce.
Rikyu riteneva inoltre che le finestre dovessero essere funzionali al dosaggio della luce e non dovessero essere concepite per veicolare lo sguardo verso l’esterno. Non utilizzò quindi nelle sue stanze una sorta di lucernario (tsukiage), amato da altri maestri, che dava la possibilità stando seduti sul tatami di ammirare la luna. Bisognava infatti per Rikyu evitare di eccitare i sensi, così da favorire una condizione meditativa come quella dello zazen, dove si raccomanda ai praticanti di tenere sempre gli occhi semiaperti, così da non focalizzare lo sguardo su alcunché. Le finestre possono essere a listelli di bambù (renjimado) e/o fatte con una sorta di reticolato (shitajimado) e la luce viene filtrata attraverso un’intelaiatura di bambù ricoperta da carta di riso non trasparente. Sia le imposte sulle finestre che gli shoji, pannelli scorrevoli interni alla stanza, potevano scorrere o essere rimossi completamente. Le imposte erano comunque utilizzate come protezione dagli eventi atmosferici.

Alberto Moro


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