Il cinema giapponese tra tradizione e modernità
Kenji Mizoguchi – Genroku Chûshingura (1941)
Per un osservatore distante
Stanno conversando dei fiori
Eppure a dispetto delle apparenze
Sono immersi in pensieri molto differenti
Ki No Tsurayuki
Con questa poesia, del poeta, di epoca Heian, Ki No Tsurayuki, inizia un saggio fondamentale sul cinema giapponese, Pour un observateur lointain di Noël Burch. L’autore dimostra i caratteri di unicità ed originalità di questa importante cinematografia, l’unica, almeno fino al 1945, non derivante dalla cultura occidentale. Solo i registi nipponici hanno saputo elaborare codici di rappresentazione filmica esclusivamente propri e profondamente divergenti dagli standard hollywoodiani che venivano adottati anche in Europa e in tutte le nazioni in qualche modo colonizzate.
Un semplice sguardo alla storia di questo paese può fornire una spiegazione. Non è mai stato invaso in duemila anni di storia, fino alla sconfitta della Seconda Guerra Mondiale, e non è mai stato soggetto ad uno status coloniale. Pur essendosi aperto all’occidente, nell’era Meiji, ha saputo usare le conoscenze tecnologiche acquisite per costruire un bastione contro l’egemonia americana. Questo è alla base dell’originalità del suo cinema e ha reso possibile l’autonomia tecnica ed economica della sua industria. Esiste del resto uno stereotipo che dice che i giapponesi non copiano, bensì adattano.
Esclusivamente nipponica è stata l’introduzione, nell’epoca del muto, della figura dei benshi. Si trattava di narratori che, posizionati ad un lato dello schermo e, avvalendosi di un’orchestra, prestavano la voce ai personaggi del film e ne commentavano la storia. Le origini sono riconducibili, nel periodo Edo, agli etoki, sorta di cantastorie che facevano uso di dipinti e strumenti musicali, e all’interno di una forma di rappresentazione, simile al vaudeville, detta yose.
Fin dagli albori, il cinema nipponico si è concentrato su due filoni principali, il jidaigeki e il gendaigeki. Il primo, una sorta di dramma in costume derivato direttamente dal teatro kabuki, si basa su di una tradizione di codici feudali risalente al periodo Tokugawa. Molte opere come il celebre Chushingura (I quarantasette ronin), o la biografia del samurai Myamoto Musashi, possono vantare numerosi adattamenti, anche ad opera di registi molto importanti come Mizoguchi Kenji e Inagaki Hiroshi. Il gendaigeki è invece un genere di ambientazione contemporanea incentrato su su storie di gente comune, sulla vita come è realmente. In questo campo alcuni registi hanno saputo esprimere un cinema intimista e poetico, basato sulla serenità insita nella semplicità. I grandi maestri sono stati Ozu Yasujiro, Naruse Mikio, grande autore di ritratti femminili, e Shimizu Hiroshi, da ricordare per la sua particolare sensibilità verso il mondo dell’infanzia.
Una peculiarità dei film giapponesi è quella di dare molta importanza alle atmosfere, alla relazione tra i personaggi e l’ambiente che li circonda. Questo riflette quel sentimento, assolutamente nipponico, che vede il mondo della natura come un’estensione dell’uomo stesso. E’ evidente nell’utilizzo degli elementi che viene fatto in molti film. Basta pensare alla scena della battaglia sotto la pioggia in I sette samurai (Shichinin no samurai, 1954), o il sole pressoché palpabile in film come Ventiquattro occhi (Nijushi no gitomi, 1954) o L’isola nuda (Hadaka no shima, 1960). Molto importante è anche il modo di trattare le stagioni. Molti titoli di film di Ozu ne costituiscono un campionario e sono un parallelo con le vicende narrate. Anche il già citato L’isola nuda si fonda sul passare delle stagioni e sui relativi cambiamenti naturali della piccola isola in cui è ambientato. Il regista Naruse Mikio ha, similmente ad Ozu, un catalogo di titoli, nella propria filmografia, che si fondano sulle nuvole: Nubi fluttuanti, Nubi d’estate, Nubi disperse.
Questa sensibilità sembra essere ancora viva nel cinema di oggi. Ne è un esempio, il film (Tokyo marigold Tôkyô Marîgôrudo, 2001), di Ichikawa Jun, in cui un fiore annuale simboleggia la caducità di una storia d’amore che dura una sola stagione.
Giampiero Raganelli
Tratto dal n. 67 di Pagine Zen