Contemplare il vuoto: spunti di riflessione attorno al giardino zen (4)

IV

Nel giardino secco del Ryōanji (ma si potrebbero riscontrare anche negli altri giardini secchi templari), sono rintracciabili alcune caratteristiche che sfidano la nostra ansia di interpretazione. L’impossibilità di calpestare la superficie del giardino e la visione dall’esterno che ne deriva, la presenza di una molteplicità di piani prospettici e, al contempo, la prospettiva dinamica che ne scaturisce se l’osservatore si muove sulla veranda prospiciente il giardino e inquadrante lo stesso come una sorta di cornice, l’illusione di infinito data dalla distesa bianca e immobile della ghiaia ed infine l’incapacità di cogliere la totalità del giardino, un’impossibilità che allude evidentemente al concetto zen dell’incapacità di cogliere la totalità del reale. Tutti questi fattori rendono apparentemente complessa l’esperienza della visione. Se ad essi volessimo aggiungere l’insolita esperienza sensoriale cui siamo costretti poichè percorrendo a piedi nudi il pavimento in legno dell’engawa o addirittura sedendoci sui tatami interni del padiglione aggettante sul giardino noi facciamo esperienza di un piano morbido o addirittura soffice al tatto mentre, contemporaneamente, abbiamo la visione “ruvida” delle pietre e della ghiaia, con uno scarto sensoriale di notevole entità, ecco che la sfida dal piano intellettuale slitta a un piano fisico, sensoriale.

Si può allora a buon diritto concordare con Fujii quando afferma “ L’assenza di un centro trascendente  o di una veduta che possa dare ordine allo spazio priva il giardino giapponese di prospettiva e lo trasforma in uno spazio non costruito.” Per Agostino De Rosa, tale affermazione di Fujii è da intendersi non come la denuncia di una assenza di progettualità, bensì come una totale assenza di volontà di assecondare la visione diretta, privilegiando piuttosto uno spazio e una rappresentazione dello stesso fondati sull’affastellamento di percezioni correlate, su continue trasformazioni della visione. Ogni idea di panorama o veduta viene cancellata per esaltare piuttosto “il ritmo fluttuante della visione”. Si tratta appunto, ci verrebbe da dire, della realizzazione del principio di mutamento e, al contempo, della realizzazione dell’impermanenza del mondo fenomenico (in giapponese, mujō), ovvero di quello che è uno degli insegnamenti centrali del Buddhismo. Si tratta del concetto del carattere fugace, transitorio di ogni essere senziente, di ogni azione, di ogni fenomeno, di ogni sentimento e di ogni sensazione. Questo concetto definisce un’assenza di continuità fra le azioni, una sorta di vacuità temporale che permette al singolo momento del presente di esistere ma, al contempo, a nessun attimo di esistere indipendentemente dal passato e dal futuro, cioè da quella rete di eventi che lo avvolge in una interdipendenza che solo con la liberazione dai pensieri illusori e la percezione della totalità nel Risveglio, o Illuminazione (in giapponese, satori) si può  esperire, superando le forme di dualismo prodotte dalla mente per classificare in categorie razionali la realtà indifferenziata.

Chi realizza l’esperienza del Risveglio, realizza il superamento del dualismo soggetto/oggetto, realizza l’assenza di sostanzialità (in giapponese, muga), avendo colto il principio dell’interdipendenza dinamica di ogni essere e di ogni fenomeno che esprime l’idea che non si dà una realtà autonoma indipendente da relazioni e da fattori condizionanti e mutevoli. Nel Risveglio, per opera della sapienza (in sanscrito, prajña, in giapponese. hannya), viene finalmente abbandonata ogni concettualizzazione, ogni dualismo, ogni idea discriminante. Colui che ha raggiunto il Risveglio fa esperienza dell’unità sostanziale di ogni oggetto e dell’identità fra sé e il Buddha, raggiungendo così la condizione di buddha, scopo ultimo di ogni pratica. Egli è entrato nel mondo della non-mente, dove la totalità appare un tutto armonico che trascende ogni categoria conoscitiva, avendo raggiunto la consapevolezza che la percezione umana della realtà è illusoria: come non esiste infatti separazione fra l’io conoscente e gli oggetti, non esistono neppure il tempo e lo spazio. Non esiste più il giardino.

Rossella Marangoni

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