Antonio Fontanesi, pittore e maestro dall’animo giapponese
Il Kobū bijutsu gakkō
Nel 1876 il governo fondò il Kobū bijutsu gakkō (Scuola tecnica d’Arte) poiché aveva la necessità di istituire un’accademia nella quale si insegnasse la pittura per puri scopi pratici. Essa fu inserita nelle competenze del Kōbushō (Ministero della Tecnica) dal momento che l’arte veniva considerata una tecnica al servizio della scienza.
All’epoca il governo impiegava diversi stranieri, i quali avevano il compito di contribuire alla formazione della futura potenza giapponese: l’Italia fu scelta come maggiore rappresentante della “grande” arte. Il conte Alessandro Fè, allora ambasciatore italiano in Giappone, inviò un bando che, attraverso il Ministero della Pubblica Istruzione, pervenne all’Accademia Albertina di Torino nella quale insegnava paesaggio da sei anni Antonio Fontanesi. Il bando giunse anche all’Accademia di Brera dove furono scelti Vincenzo Ragusa per rappresentare la scultura e Giovanni Vincenzo Cappelletti per l’architettura.
Antonio Fontanesi (1818 – 1882)
Ma chi era il più anziano dei tre artisti scelti come rappresentanti dell’arte occidentale?
Il caso di Fontanesi si presenta sicuramente in termini eccentrici in quanto non è assimilabile agli itinerari ampiamente diffusi nell’Ottocento. Il pittore si forma nella sua città natale – Reggio Emilia – negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento e le sue prime opere sono paesaggi di impostazione puramente scenografica con funzione decorativa. La sua vita è caratterizzata da una serie di viaggi e spostamenti: Lugano, Ginevra, Parigi e Londra i quali influenzano inevitabilmente il suo modo di dipingere anche grazie ai contatti con la Scuola di Barbizon, Corot, Turner e Constable.
Negli anni Cinquanta le opere di Fontanesi iniziano ad essere caratterizzate da una visione indistinta dei luoghi ritratti, i quali perdono qualsiasi coordinata geografica e temporale. Egli considera importante lavorare all’aria aperta, entrando in contatto diretto con il vero, e ha come obiettivo la resa dell’infinito, l’unità del tutto all’interno della tela.
Nel 1868 arriva la nomina all’Accademia di Lucca, primo passo verso l’entrata all’Accademia Albertina. Al momento della firma del contratto presso l’Ambasciata giapponese a Roma, nel 1876, Fontanesi è un artista di 58 anni celibe, abituato a viaggiare, non ancora apprezzato dall’ambiente torinese, al quale viene proposta l’occasione di visitare una terra lontana e misteriosa ricevendo uno stipendio annuo di 10.000 lire contro le 1.800 lire prese in patria. Possiamo quindi comprendere senza difficoltà quali furono le motivazioni che spinsero l’artista a compiere un tale passo non di certo privo di incertezze.
L’arrivo in Giappone
E così, dopo un viaggio lungo un mese e mezzo, Fontanesi arriva a Tokyo alla fine di agosto del 1876 carico di calchi in gesso, fotografie di capolavori, carboncini, acquarelli e perfino manichini a grandezza naturale per il disegno della figura umana. Pieno di entusiasmo partecipa ai lavori di ristrutturazione dell’edificio che doveva ospitare la scuola e comincia le lezioni con accanto un interprete che traduce dal francese. L’insegnamento era diviso in lezioni pratiche e teoriche, con particolare attenzione alla formazione di una tecnica base. Gli studenti giapponesi appresero in fretta l’importanza del disegno preliminare, al fine di rendere chiaro l’oggetto rappresentato; ciononostante all’atto pratico tendevano a utilizzare le linee libere tipiche della tradizione giapponese. La forma mentis aveva bisogno di maggior tempo per adattarsi alle nuove tecniche.
Per molti Fontanesi fu il punto di partenza di una carriera artistica di successo. Egli non era solo un maestro competente e un grande artista, ma lasciava anche grande libertà agli studenti giapponesi non pretendendo che abbracciassero completamente la sua maniera, come invece esigeva dagli allievi italiani. Il suo insegnamento fungeva unicamente da avvio, in futuro essi avrebbero potuto scegliere lo stile che gli era più congeniale.
Il contratto con il governo giapponese stabiliva che l’artista avrebbe dovuto lasciare il paese dopo tre anni, tuttavia l’aggravarsi della sua malattia cronica lo costrinse a dimettersi dalla scuola il 30 settembre 1878 e a salpare per l’Italia nell’ottobre dello stesso anno. Una volta rientrato in patria Fontanesi tornò all’Accademia Albertina di Torino e morì nel 1882 a 64 anni. Nello stesso anno terminava l’esperienza del Kobū bijutsu gakkō.
L’influsso di Fontanesi su una generazione di pittori giapponesi
L’esperienza giapponese di Fontanesi è stata spesso definita “sfortunata” e di poco interesse nella biografia dell’artista. Possiamo tuttavia affermare che, non solo Fontanesi trovò dei punti di contatto con la poetica giapponese, ma che diede avvio a un’intera tradizione di pittura occidentale in terra nipponica.
E’ interessante notare che, mentre molto raramente in Europa si usa il termine «realismo» a proposito della pittura di Fontanesi, ancora oggi in Giappone egli viene definito maestro del «realismo». Questo è dovuto probabilmente al fatto che, nel mondo della pittura giapponese ad olio di quel periodo, con termine «realismo» si indica un concetto più che uno stile, cioè tutta l’idea europea dell’arte come rappresentazione verosimile della realtà. In Giappone «pittura a olio» diventò sinonimo di «pittura occidentale». Nel periodo Meiji venne coniato il termine yoga (letteralmente «pittura occidentale») in contrapposizione al termine nihonga («pittura giapponese»).
Parecchi sono gli artisti che, grazie all’insegnamento di Fontanesi, hanno realizzato opere di estremo interesse e rappresentative di questa fase autorale della pittura giapponese moderna. Tra essi ricordiamo Koyama Shōtarō (1857-1916), Asai Chū (1856-1907), Matsuoka Hisashi (1862-1943) e Takahashi Yuichi (1828-1894).
Lo spirito giapponese di Fontanesi
Possiamo indubbiamente rintracciare delle affinità tra le tensioni creative di Fontanesi e alcuni principi che stanno alla base della ricerca artistica dell’Estremo Oriente. Il rapporto del pittore con la natura non pone l’uomo in una posizione di superiorità e dominio, ma di autentica simbiosi. Infatti, nonostante Fontanesi, con il suo spirito occidentale, considerasse fondamentale l’osservazione del vero e l’adozione di un atteggiamento scientifico di fronte alla realtà, se ne allontanava poi a vantaggio di una resa complessiva, che aveva come obiettivo la trasmissione della sensazione proveniente da un certo paesaggio. Nelle opere del pittore la natura, infatti, è accennata; ciononostante nel complesso viene ricreato un paesaggio verosimile e riconoscibile.
Il modo di sentire e vivere il rapporto profondo uomo-Natura e il recupero della piena unità tra questi elementi costituiscono il punto di contatto con la poetica nipponica. Queste affinità rappresentano un dato reale, nonostante lo stesso Fontanesi non ne sia mai stato consapevole.
L’esperienza giapponese ha lasciato poche tracce nella pittura dell’artista ormai in età avanzata. L’unica opera nella quale possiamo trovare i segni degli anni trascorsi in terra nipponica è Ingresso di un tempio in Giappone, eseguita dopo il ritorno a Torino e rimasta solamente un abbozzo a causa della morte dell’artista. L’intenzione era di ritrarre uno spaccato del Giappone secondo ciò che l’artista stesso aveva vissuto in prima persona. Si tratta quindi di una sintesi di caratteristiche, luoghi, persone che Fontanesi sceglie accuratamente per ritrarre l’essenza nipponica. Il tempio stesso, posto lungo un’asse verticale, presenta elementi di diverse strutture architettoniche: il Zōjōji di Tokyo (tempio degli shogun Tokugawa) e il Bunshōin a Chiba.
L’accuratezza nella preparazione di quest’opera è testimoniata da una serie di disegni preparatori, oggi conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino, nei quali spicca la naturale curiosità di Fontanesi per i costumi orientali, descritti con pochi tratti sintetici, attenti all’individuazione sommaria di abiti, copricapi e calzature. In essi il tratto del segno è netto e deciso, e si ravvisa la tendenza alla sintesi concettuale di Fontanesi, il quale si preoccupava maggiormente di rendere l’idea dei personaggi piuttosto che delinearli nel dettaglio.
Nonostante il breve periodo trascorso in Giappone, Antonio Fontanesi è riuscito a ricreare l’atmosfera di scambio culturale e umano che aveva costruito con gli allievi a Torino, appianando le differenze e le incomprensioni scaturite dalla distanza della cultura e della lingua giapponese.
Federica Mafodda