Il senso della bellezza giapponese e l’architettura sukiya (2)

Definire la cultura

I giapponesi esprimono costantemente il desiderio che la propria nazione e le città non siano meramente civilizzate ma acculturate, tuttavia le città che costruiscono in realtà sono una manifestazione del primo aspetto e non del secondo. La ragione di ciò risiede nell’incapacità di distinguere con chiarezza fra civiltà e cultura.

Watsuji Tetsurō spiega allegoricamente che: “quando condiamo una verdura appena colta con l’olio e la mangiamo, questa è civiltà. Quando mettiamo della verdura appena colta in un contenitore e la lasciamo in salamoia per giorni, facendo emergere il corpo del suo sapore nascosto, e poi la mangiamo, allora quella è cultura.” (Leggermente modificato ai fini del presente articolo.)

Il sapore della civiltà espressa dall’insalata di Watsuji è superficiale e monodimensionale. Ma nel caso nella cultura, prendersi il tempo di mettere in salamoia la verdura fa emergere il suo intero “corpo”, o sapore nascosto. Nella tesi di Watsuji, è questo “sapore nascosto” che costituisce la cultura.

Numeri dispari, spazio vuoto e risonanza

Se, come ha scritto Watsuji, la cultura è un sapore nascosto, si può forse dire che questo sapore nascosto risieda nella “rimanenza” che si trova nei numeri dispari. I numeri pari sono divisibili per due, non lasciando niente, nessun “sapore” dietro di sé. D’altro canto, i numeri dispari implicano sempre un potenziale nascosto di rimanenza, consentendo una varietà di trasformazioni.

I giapponesi hanno dimostrato un amore per i numeri dispari sin dai tempi antichi. Gli esempi di ciò includono lo schichi-go-san, la consuetudine secondo cui a Novembre i bambini di 3 e 5 anni e le bambine di 3 e 7 anni visitano il tempio, e 3 cortigiane e 5 musicisti sono inclusi fra le bambole in mostra durante il Festival delle Bambine il 3 marzo. Il valore attribuito ai numeri dispari dimostra un’affinità spirituale non per i numeri in sé ma per la rimanenza inerente ad essi. Ciò deriva da un desiderio inconscio di forza latente, potere da risparmiare ed energia divina implicate nella rimanenza. In altre parole, i giapponesi sono attratti dalla rimanenza perché ha spazio di riserva per stimolare la dignità, il potenziale e l’umore.  Trascende lo stato attuale per lasciar spazio a qualcosa di più grande, una qualità vaga e tuttavia profondamente spirituale che comprende la forza potente o l’emozione. L’estetica della rimanenza è espressa nei dipinti ad inchiostro suibokuga e nei dipinti Zenga come apprezzamento della bellezza dello spazio vuoto, di ciò che offusca e della risonanza.

La risonanza espressa dalla parola giapponese yoin è un’emozione estetica che perdura quando qualcosa è finita. Come lo spazio vuoto, questa risonanza è una forma senza forma, qualcosa che non è espresso direttamente ma che è profondamente impresso nel cuore umano, come un fantasma silenzioso. L’arte del teatro noh si è sviluppata come modalità di espressione di tale risonanza e la stanza del tè – cioè, la struttura architettonica del chanoyu – le ha dato forma.

Una stanza del tè è uno spazio per la meditazione. Questo atto di prendere commiato dal mondo che è davanti a noi e di perdere se stessi nel pensiero possono essere considerati uno sviluppo della risonanza che ha acquisito qualità positive. Lo stile architettonico sukiya è nato dallo spirito della stanza del tè. Ne consegue che anche se un palazzo può assumere la forma del sukiya, se non riesce a instillare una risonanza estetica nel cuore umano, sarà un involucro “a numeri pari” che manca del potenziale della rimanenza. Quest’idea forma l’essenza dell’estetica giapponese, cioè il potenziale della varietà che si ritrova solo nelle rimanenze dei numeri dispari e la progressione illimitata verso la minimizzazione. La minimizzazione dà espressione all’estetica del negativo, quello del meno contro il più e del silenzio contro la loquacità. Il senso estetico comune radicato nel clima naturale del Giappone implica sempre un’inclinazione verso il negativo.

Izue Kan


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