L’aikidō – terza parte
La via, dō.
Il concetto che i giapponesi esprimono con i termini dō o michi, la via, si basa sul concetto del Dao arrivato in Giappone dalla Cina. Il significato originario cinese, andò modificandosi sia a contatto con le credenze autoctone giapponesi, sia per esigenze sociali e politiche della classe egemone, che sintetizzò dagli elementi cinesi un modello di pensiero compatibile con la società feudale giapponese.
Accanto all’essenza filosofica ed etica del dō, si possono trovare elementi religiosi, sebbene il d. non costituisca di per sé una religione.
Il Dao, come dō fu inteso dai giapponesi come “la via” o “la strada” da seguire nella vita. Questa via e infinita e profonda. È lunga, ripida, e piena di numerose difficoltà. Deve quindi essere percorsa come un mezzo di auto-educazione che porterà alla fine all’auto-perfezione.
Il concetto di dō è versatile. Prende la forma di una gran varietà di discipline pratiche, strettamente associate alla vita giapponese. Tutte queste discipline sono sfide finalizzate al raggiungimento di un migliore modo di vita, e sono basate sulla convinzione che un uomo non sia un essere completo se non ha fatto sufficiente esperienza di dō.
L’ideogramma antico sembra fosse composto dall’immagine grafica di tre idee: una strada, la testa di un maestro, i piedi di un altro uomo, colui che segue il maestro lungo la via, il discepolo. È questa “via” è un processo o legge immanente di un principio che dai daoisti viene indicato come Dao, grazie alla cui comprensione si raggiunge la salvezza, mentre nel confucianesimo maggior rilievo viene dato al manifestarsi concreto del Principio supremo, quindi alle leggi sociali cui i governanti si devono attenere per restare in armonia con l’universo. Nel periodo Tokugawa la classe militare aveva sposato l’etica confuciana, sottolineando i doveri nei confronti della struttura statale, in accordo con le credenze shintoiste che richiedevano unacieca fedeltà al proprio dovere militare. L’idea di dō riflette le antitetiche concezioni cinesi riguardo al dao, il principio assoluto generatore del mondo, la via. Essa per i confuciani aveva il carattere di immutabilità, costanza, permanenza; al contrario il Daodejing, un classico del pensiero daoista, comincia proprio con queste parole: “il Dao che può essere detto non è l’eterno Dao”.
Il concetto di via nelle arti marziali sottende l’idea di cambiamento, che coinvolge tanto l’idea stessa di via quanto di colui che la percorre. La via delle arti marziali, proponendosi come fine la trasformazione dei suoi adepti, oltre che la loro formazione professionale, acquista quindi un notevole valore pedagogico.
L’insegnamento delle arti marziali ha un potenziale formativo che non può essere comunicato a parole perchè ciò che realmente trasforma è il tipo di esperienza che ognuno deve compiere su di sé attraverso la pratica.
Secondo Simone Dalla Chiesa, la traduzione appropriata alla parola dō, sarebbe “arte”, percorso che permette di arrivare a un’esperienza fuori dall’ordinario. Questo vale per le arti marziali (budō), ma anche per la calligrafia (shodō) o la cerimonia del te (chadō) e l’arte di disporre i fiori o ikebana (kadō).
Imparando una sequenza di movimenti formalizzati e simulando un combattimento, ci si comporta al tempo stesso in modo naturale (automatico) e anche rituale (formale). Chi pratica un’arte marziale ripete i gesti del fondatore e cerca di immedesimarsi in lui. Dato che il fondatore è idealizzato, il praticante ha un collegamento di tipo spirituale col fondatore e quindi con la divinità.
Mentre al fedele di una religione e richiesta solo adesione ideale e nessun tipo di costante allenamento fisico specifico, il praticante di d. raggiunge la possibilità dell’esperienza mistica solo attraverso un duro allenamento fisico. Nelle religioni tradizionali al fedele non è mai richiesta una “performance” che necessiti di allenamento e dedizione costante.
Chiara Bottelli, nipponista, si occupa di turismo responsabile e artigianato