Tradizioni inventate: il caso del jūdō di Kanō Jigorō
Secondo Stephen Vlastos, il Giappone moderno è considerato un paese pieno di usanze, valori e relazioni sociali che organicamente collegano le generazioni attuali a quelle del passato. Specialmente dopo il 1945 e la caduta dell’ideologia dello Stato famiglia centrato sulla figura dell’imperatore, i giapponesi hanno cominciato a conoscersi e farsi conoscere attraverso le loro tradizioni culturali. Armonia all’interno del gruppo, avversione per i litigi, pratica diffusa delle arti marziali, paternalismo industriale: questi e altri valori “tradizionali” hanno contribuito all’imparagonabile successo nella modernizzazione del Paese, secondo gli specialisti che partivano dal presupposto che le tradizioni sono un’autentica eredità del passato.
Esaminati dal punto di vista storico gli emblemi della cultura giapponese risultano in realtà invenzioni moderne. Secondo Hobsbawn e Ranger il termine tradizione viene generalmente usato con due significati in parte sovrapponibili, in parte contraddittori: 1) la tradizione come un tempo indefinito che precede la modernità, come una specie di involucro che contiene i vari aspetti di una cultura e ne circoscrive il senso di appartenenza. Individua una dimensione di discontinuità in opposizione alla modernità. 2) La tradizione come la continuità nella trasmissione della cultura: non sistematica ma composta da diversi elementi a diversi livelli, legame fra generazione passata e presente.
Entrambe le concezioni non sono definite in termini storici e riproducono alcuni concetti centrali della cultura occidentale come la dicotomia premoderno/moderno, stasi/cambiamento. La teoria lanciata da Hobsbawn con il suo volume provocatorio e la ironica rappresentazione della tradizione come invenzione, ha chiarito un fatto importante: tradizione non è la somma delle reali pratiche del passato che sono rimaste nel presente; piuttosto tradizione è un topos moderno, una rappresentazione precisa di idee e situazioni socialmente desiderabili (a volte indesiderabili) concepite come se fossero tramandate da generazione a generazione.
Lo studio di Inoue Shun sulla tradizione delle arti marziali moderne mostra la grande variabilità di una tradizione che si vuole immutabile. Fondato da Kanō Jigorō (1860-1938) alla fine del XIX secolo, il Kōdōkan Jūdō è il primo esempio di invenzione di budō. La trasformazione del jūjutsu, arte marziale Tokugawa in uno sport nazionale e cultura del corpo viene a simbolizzare l’identità nazionale del Giappone moderno.
Il Kōdōkan jūdō come prototipo del budō fu originariamente concepito come forma culturale ibrida prodotto della modernizzazione di una pratica tradizionale. Kanō Jigorō aveva ventitre anni ed era ancora studente alla facoltà di Scienze politiche dell’Università Imperiale di Tokyo quando, nel 1882, fondò il Kōdōkan, l’accademia per l’insegnamento del jūdō. Kanō creò una nuova arte marziale “scientifica”, selezionando le migliori tecniche delle scuole di jūjutsu (lui stesso aveva studiato presso vari maestri dal 1870). All’inizio combinava tecniche di lotta e colpi ai punti vitali del corpo enfatizzando le tecniche della scuola Tenjin Shinyō e della scuola Kitō. Kanō studiò assiduamente tutti i materiali a disposizione applicando principi di dinamica e fisiologia umana adottati nelle varie scuole di jūjutsu.
Promuovendo il Kōdōkan jūdō, Kanō enfatizzò il ruolo innovativo e il rigoroso empirismo della sua creazione. Oltre al ricorso a principi scientifici, Kanō inaugurò un nuovo metodo d’insegnamento e un nuovo rapporto maestro-allievo.
L’insegnamento del jūjutsu secondo la prassi consolidata, doveva avvenire solo attraverso l’esperienza di scambio diretto con il maestro. Gli studenti osservavano l’azione del maestro e praticavano i kata, le forme convenzionali, solo riproducendo ciò che vedevano. Kanō invece sottolineò l’importanza della comunicazione verbale e delle spiegazioni razionali. Al Kōdōkan si tenevano conferenze e alle sessioni di domande/risposte seguivano dimostrazioni e pratica.
Molti fattori hanno contribuito al successo del Kōdōkan che nei primi anni aveva solo dieci allievi ma nel 1887 contava già 500 iscritti, mentre nel 1892 raggiungevano quasi i tremila.
Il successo iniziale fu dato dalle vittorie che gli allievi di Kanō riportavano sugli altri praticanti di jūjutsu nelle competizioni indette dalla Polizia Municipale. Kanō fu sorpreso dall’abilità tecnica dimostrata dai suoi allievi ma si riferisce che abbia detto “Penso che abbiano vinto principalmente grazie al loro spirito”.
Kanō riteneva che la grande distanza fra i livelli scoraggiasse gli allievi. Creò quindi un sistema di dieci livelli ascendenti. Per i principianti non ancora arrivati al grado di dan inventò un sottosistema di sei livelli di kyū. Ancora, allo scopo di stimolare la motivazione degli studenti creò il randori (un allenamento in forma libera). Kanō paragonò il rigido allenamento basato sui kata del jūjutsu alla grammatica, e il suo metodo alla composizione:
Solide fondamenta grammaticali sono alla base e indispensabili ma da sole non
possono produrre necessariamente una fluida composizione.
Il randori era vincente e più divertente.
La novità che Kanō porta nelle arti marziali è il nuovo rapporto che crea con i suoi allievi, rivoluzionando il rapporto maestro/allievo. La parola jūdō non è più riferita semplicemente a un’arte marziale ma incorpora un principio applicabile a tutti gli aspetti della vita umana. Kanō puntava al suo aspetto di formazione del carattere; lo scopo del jūdō è quello di contribuire al miglioramento nel mondo. Così il jūdō acquistava un ruolo educativo, formando cittadini di talento e capacità, che grazie all’auto-miglioramento contribuivano positivamente alla nazione.
Nel 1922 fonda il Kōdōkan bunkakai (associazione culturale del Kōdōkan) con lo scopo di promuovere tre principi base:
1) l’uso più efficiente dell’energia (ki) come segreto per l’auto perfezione
2) l’auto-perfezione che si raggiunge aiutando gli altri al raggiungimento della perfezione
3) l’auto-perfezionamento reciproco come fondamento per la prosperità del genere umano.
Con la parola energia egli intende sia quella mentale sia quella fisica. Kanō rivoluzionò l’uso della parola non solo nelle istruzioni ma anche con scritti teorici, conferenze. Raccolse quattordici volumi su teoria, principi, scopi. (Kanō Jigorō Taiken, le esperienze di Kanō Jigorō).
Kanō fu molto più che il fondatore di una nuova scuola di jūjutsu. Fu un uomo di lettere che inserì il jūdō con successo nella vita culturale del nuovo Giappone e stabilì la sua ragion d’essere in una società in cui non esistevano più i guerrieri feudali, i bushi. In questo senso la prosperità e la crescita del jūdō può essere rappresentativa del trionfo della parola sulla spada, delle arti letterarie bun sulle arti marziali bu. Tutto questo percorso rappresenta il tentativo di creare una continuità con la tradizione e al tempo stesso adattarsi a condizioni mutate. Le arti marziali erano in declino, quindi per rinnovarle bisognava adattarle al mondo in cambiamento.
Il termine jutsu denota la tecnica, dō invece sottolinea la via per la propria realizzazione senza però togliere merito ai maestri del passato.
L’associazione con la “tradizione” facilitò lo sviluppo del Kōdōkan jūdō in varie maniere. Approfittando dell’appoggio dei politici nazionalisti conservatori nel 1910 Kanō fu nominato primo membro del Comitato Olimpico Internazionale; egli non era tuttavia un nazionalista dalla visione limitata; promosse e rivitalizzò le arti marziali ma cercò di avvicinarle allo stile degli sport occidentali.
Nel 1911 fondò l’associazione Giapponese di Sport Amatoriali (Dai Nihon Taiiku Kyōkai) che selezionò gli atleti che parteciparono alle Olimpiadi del 1912 a Stoccolma, i primi giochi internazionali che videro la partecipazione di quindici atleti giapponesi.
La forma moderna delle arti marziali giapponesi, budō è stata fortemente influenzata dal Kōdōkan jūdō. Da una parte si introducono elementi attuali come la ricerca scientifica applicata alla tecnica, il sistema dan kyū, la didattica basata sull’analisi dettagliata dei movimenti e l’enfasi sul carattere formativo; dall’altra il budō seguiva le tracce delle antiche arti marziali su cui indiscutibilmente si basava.
La concezione di Kanō non era né strettamente nazionalistica né socialmente conservatrice. Kanō promosse anche lo sviluppo degli sport occidentali e mandò il suo migliore allievo in America a insegnare il jūdō; inoltre aprì la pratica della disciplina anche alle donne. Tuttavia il budō venne usato dai nazionalisti in funzione di propaganda e associato al militarismo giapponese; dagli anni Venti fino alla Guerra con la Cina nel 1937 e alla Seconda Guerra Mondiale (1941-45) per favorire la mobilitazione bellica. I valori morali promossi dal Gakkō budō vennero identificati con la devozione allo Stato, secondo lo spirito marziale dell’imperatore Kanmu fondatore di Heian Kyō (774 d.C), come elemento fondante del wakon, il puro spirito giapponese.
Tra gli anni Trenta e Quaranta gli sport occidentali venivano scoraggiati mentre si promuoveva una concezione nazionalistica del budō che aveva una storia antica e incorporava il wakon. L’enfasi espressa da Kanō sulla modernità e discontinuità del jūdō rispetto alla tradizione svaniva. Gli sport occidentali come tutta la cultura occidentale erano basati sull’individualismo e sul liberalismo mentre gli sport nazionali erano considerati tesori culturali. Fu sviluppata la visione nazionalistica, wakon yōsai, spirito giapponese opposto alla tecnica occidentale.
Dopo il 1945 tutte le arti marziali, e in particolare il kendō, furono proibite in Giappone dalle autorità d’occupazione americana. Al posto del kendō furono inventate delle versioni sportive come lo shinai kyōgi e tutti gli altri budō dovettero essere trasformati in discipline solo sportive. Solo nel 1950 la All-Japan Jūdō Federation e la Japan Kyūdō Federation poterono essere riorganizzate e nel 1956 si tenne a Tokyo il primo World Jūdō Championship e nel 1964 quando Tokyo ospita i Giochi Olimpici, il Jūdō fu accettato come sport olimpico.
Chiara Bottelli, nipponista, si occupa di turismo responsabile e artigianato