I colori in Giappone, fra etica ed estetica
Il sistema cosmologico cinese che era stato adottato in Giappone durante il VII secolo, attribuiva a ciascuna direzione un colore particolare e una stagione particolare, secondo il complesso sistema geomantico che influenzò grandemente la vita quotidiana del popolo giapponese nei periodi Nara e Heian, attraverso la complicata impalcatura dei tabù direzionali, kataimi e un apparato di superstizioni di varia natura:
- alla primavera si attribuivano i colori blu e verde e la direzione era l’oriente,
- all’estate si attribuiva il colore rosso e la direzione era il meridione
- all’autunno si attribuiva il colore bianco e la direzione era l’occidente
- all’inverno si attribuiva il colore nero e la direzione era il settentrione
- il colore giallo contraddistingueva il centro.
Blu, rosso, bianco, nero e giallo avevano una connotazione morale positiva mentre gli altri colori, il viola, ad esempio, venivano considerati negativi e portatori di sventura. Ai colori venne quindi attribuita un’importanza particolare, un significato che andava ben al di là della mera preoccupazione decorativa, legandoli a un concetto etico. Come afferma il celebre designer Tanaka Ikkō: “In Giappone i colori, siano essi intensi o delicati, sono identificati non sulla base della luce riflessa o dell’ombra, ma in termini di significato e sentimento associati ad essi. Gli aggettivi utilizzati per descrivere i colori, come iki (sofisticato o chic), shibui (misurato, mitigato) o hannari (gaio e allegro) tendono a essere quelli che sottolineano i sentimenti, piuttosto che i valori dei colori confrontati.”
Nelle epoche successive, pur con scarti inevitabili, l’importanza attribuita ai colori crebbe, come risulta evidente dai capolavori letterari del periodo Heian, epoca in cui il colore svolgeva un ruolo essenziale – culturale, spirituale e sensuale – nella cultura classica del Giappone. I colori dei kimono, ad esempio, seguivano combinazioni codificate che erano strettamente legate al rango di corte dell’individuo che li indossava e appropriate alla stagione in cui ci si trovava: non rispettare queste regole di etichetta sarebbe valso a meritare l’esclusione sociale.
Ma lo spinto decorativismo del periodo Edo esaltò colori diversi, nati dallo sviluppo di nuove tecniche di tintura dei tessuti e più rispondenti ai nuovi canoni estetici che erano andati maturando soprattutto a partire dal periodo Genroku (1680-1709). In questa epoca si predilessero colori derivati da raffinate combinazioni di tinte, come ben esemplificato dal jōshiki maku del kabuki, il sipario formale a righe verticali verdi, ruggine e nere. Secondo la spiegazione di Haga Tōru, che definisce suggestivamente il jōshiki maku come il tricolore del Giappone, il tricolore del mondo dell’intrattenimento e del divertimento, e lo contrappone parodisticamente al tricolore francese nato nello stesso periodo, il verde è ottenuto da una base di colore moegi, corrispondente a un verde cui sia stato aggiunto il giallo dei germogli di cipolla appena spuntati e leggermente scurito dall’aggiunta di un grigio che gli faccia prendere il colore del tè verde carico. Il ruggine è ricavato da un arancio ottenuto con il tannino di cachi cui siano mischiati del rosso e una punta di nero, mentre persino il nero è ottenuto da blu profondo cui siano stati aggiunti il porpora e altro nero.[1] Allo stesso modo venivano ottenuti i colori prediletti indossati dai celebri attori del kabuki, che finivano per dare il proprio nome ai colori stessi, come i marroni Rokō, Baikō, Shikan, Shikō, Rikan, citati anche da Kuki Shūzō nel suo celebre saggio Iki no kōzō.[2] Durante il periodo Edo il marrone, insieme alla gamma dei grigi e a quella dei blu, era considerato il colore iki (raffinato) per eccellenza poiché “grazie alla sua tonalità luminosa da un lato, e al calo del grado di saturazione dall’altro, si esprime in esso una seduzione che conosce la rinuncia e una sensualità che è capace di spezzatura.”
I colori prediletti dagli attori del kabuki diventavano rapidamente di moda, diffondendosi, nei gusti del pubblico, da Edo alle più sperdute province di un paese chiuso ufficialmente alle influenze straniere ma quanto mai affamato di novità. I più celebri attori del kabuki, del resto, sperimentando una sorta di divismo ante-litteram, influenzarono ben presto i gusti popolari in fatto di atteggiamenti, abbigliamento, acconciature, accessori e profumi e legando il proprio nome a mode e a prodotti, e i colori non fecero eccezione a questa regola. Un episodio curioso contenuto nello Ukiyoburo, opera di Shikitei Sanba del 1809, mostra il tentativo di una fanciulla di convincere la madre a tingerle un kimono con tintura color rokōcha, la sfumatura di marrone prediletta dal celebre onnagata Segawa Kikunojō II (1741-1773) conosciuto anche come Rokō o Ōji Rokō, “Rokō il principe”, il cui haimyō (nome letterario) pubblicizzò una gran quantità di prodotti e viene ricordato in numerose opere letterarie del periodo.
Questo colore era costituito da un marrone fosco iniettato di verde scuro e restò molto popolare almeno fino al 1820, come spiega Haga Tōru che sottolinea così l’interazione fra teatro e vita quotidiana nella società del periodo Edo testimoniata dalla pervasività delle mode originate nel mondo del kabuki: “Dall’epoca di Rokō fino alla fine del periodo Edo, i marroni e i blu preferiti da generazioni di celebri attori kabuki, insieme a una gran varietà di disegni a righe, nodi e piccoli raffinati motivi divennero una componente familiare della società giapponese, in ogni regione e in ogni classe sociale. Questa influenza fu profonda sull’abbigliamento popolare, in particolare, ma anche nei colori e nei disegni di ogni genere di manufatti, ornamenti e oggetti che erano parte della vita quotidiana.”
Rossella Marangoni
[1] Cfr. HAGA Tōru, “Color and Design in Tokugawa Japan” in Japan Color, San Francisco, Chronicle Books, 1982, p. 14.
[2] Cfr. KUKI Shūzō, La struttura dell’iki, trad. it. di Giovanna Baccini, Milano, Adelphi, 1992, p. 110.