Dalla Cina con furore

ideogrammiCapita spesso che chi non ha molta confidenza con l’Oriente, magari non avendo mai avuto occasione di approfondire l’argomento o non avendone avuto l’interesse, tenda a confondere molto facilmente Giappone e Cina pensando che si tratti della stessa cosa. A volte questa abitudine, se reiterata, può risultare irritante soprattutto per chi si impegna nella differenziazione delle due culture e nella divulgazione degli aspetti tradizionali che le distinguono; però, effettivamente, non si può biasimare l’errore di chi in buona fede e da profano riconosce dei tratti in comune tra queste due realtà e tende a identificarle tra loro.

Al di là dei tratti somatici indiscutibilmente asiatici,  si tratta proprio della condivisione di aspetti culturali, linguistici, religiosi, artistici e di una mentalità intrisa di concetti filosofici di matrice prettamente estremo orientale.

Nel corso della storia, a periodi alterni, Giappone e Cina hanno sempre intrattenuto contatti, scambi sia a livello culturale sia commerciale, e non di meno si sono verificate diverse occasioni di attrito; ma ciò che in questo spazio interessa sottolineare sono i punti di contatto costruttivi che hanno portato a un’evoluzione reciproca. Uno dei primi incontri tra queste due civiltà risale al VVI sec. d.C quando un’ambasciata cinese, passando per la Corea, giunse in Giappone portando con sé oltre a oggetti d’arte e d’uso quotidiano anche tratti fondamentali di cultura tra i quali il buddhismo e la scrittura.

Il buddhismo è segnato da una lunga e complessa storia che attraversa tutta l’Asia partendo dall’India, passando per la Cina e la sua millenaria civiltà, e giungendo infine in Giappone subendo trasformazioni e adattamenti incredibili e dimostrando una malleabilità impensabile per qualsiasi altra religione esistente. Così, seppur avendo una stessa storia che ne narra le origini e uno stesso sviluppo condiviso storicamente da tutte le civiltà a cui appartiene, esiste un buddhismo indiano con le proprie divinità, un buddhismo cinese amalgamato a elementi filosofici continentali quali il confucianesimo e il taoismo, e un buddhismo giapponese che ancora una volta dimostra quanto la cultura giapponese e il suo popolo abbiano la capacità di assimilare elementi esterni pur integrandoli al meglio alle proprie credenze autoctone, facendoli rientrare infine in un insieme armonico e coerente privo di gap concettuali; basti pensare allo shinbutsu shūgō, che consiste nell’ integrazione fra loro di concetti di natura buddhista con credenze proprie della religione autoctona ossia lo shintoismo, più che una vera e propria religione, un culto dei kami, le divinità giapponesi.

Altra innovazione fondamentale e rivoluzionaria per i wa (“nani”,  così come venivano chiamati a quel tempo i giapponesi dai vicini continentali), fu la scrittura. Sino alla sua introduzione la lingua giapponese era essenzialmente una lingua parlata e non usufruiva di un coerente metodo di scrittura che potesse fissarne regole e principi in maniera stabile; così partendo dagli ideogrammi cinesi, simboli significanti portatori di un significato specifico, i giapponesi riuscirono a sviluppare nel tempo un proprio sillabario fonetico, lo hiragana, che integrarono grammaticalmente ai kanji (lett. caratteri cinesi), venendo finalmente a poter esprimere la propria lingua parlata, così originale e differente dal cinese, con le sue regole e la sua pronuncia, tramite una scrittura che, seppur importata da una civiltà straniera, risultava autoctona  nella sua forma finale; ne risultano infatti due lingue estremamente diverse tra loro nonostante usufruiscano entrambe degli ideogrammi (in cinese: hanzi), perché al di là dei differenti metodi utilizzati da una civiltà per esprimere su carta i propri pensieri ciò che fa di una lingua un elemento di diversificazione e identità culturale per un popolo è proprio la lingua parlata, viva, soggetta a  continui mutamenti.

 

Eleonora Bertin